Richard Linklater non è un autore convenzionale. Lo ha saputo dimostrare in tutta la sua carriera con progetti sperimentali sempre diversi. Eppure, fra tutte le sue opere, Boyhood è l’unica davvero universale. Un parto più sofferto degli altri, quello del film uscito nel 2014, risultato di una gestazione lunga 12 anni e della chiara volontà di superare la Before Trilogy – o, per meglio dire, di superare se stesso. L’idea di Boyhood nasce sulla scia della precedente: scegliere un intero cast per girare le diverse fasi del film seguendo il reale scorrere del tempo. Oltre l’impressionante traguardo tecnico, l’obiettivo è addirittura più ambizioso: esplorare una “vera esperienza umana” per raccontare un’intera generazione (e forse anche di più). Portando in scena la verità di un mondo che si affaccia al futuro, Linklater ha così sintetizzato gli anni d’oro dei millennial e dei primi gen z in un originalissimo film “sulla vita”.
Questo concetto cela molte più sfaccettature di quanto possa sembrare: se a 10 anni dalla sua uscita Boyhood continua ad acquisire valore, non è soltanto per il suo impatto generazionale. Mescolando l’arte al reale, il regista ha dato forma a una pellicola che vede la vita come sceneggiatura imprevedibile e il mondo come un grande contesto cangiante. Un limite creativo, all’apparenza, ma perfettamente funzionale al racconto principale: la storia di un ragazzo come tanti, scrutata da vicino tra eventi fugaci e ricordi frammentati, drammatizzata in un perfetto e disordinato fluire. Il risultato di questo mosaico è un saggio esistenzialista sottile e accorato, sorretto da premesse semplici ma eterne: la vita non è un film, ma se un film racconta la vita (quella vera) può diventare un’esperienza indimenticabile.
Osservare, raccontare, vivere
Se Boyhood non teme il peso degli anni è perché la sua intimità narrativa non si limita a una sola prospettiva. C’è il punto di vista del giovane protagonista, ma c’è anche quello di una famiglia: tutti viaggiano a velocità differenti sul medesimo percorso, affrontando fasi più o meno complesse che mantengono una sorprendente coesione nonostante le distanze temporali e anagrafiche. Lo sguardo di Linklater si mantiene fermo e deciso, mescolando stimoli e sensazioni per portare su schermo una rappresentazione filmica dei ricordi: gli istanti che lasciano il segno, i traumi che restano dentro, evidenziano attraverso il montaggio la frammentarietà della memoria. Attimi pregni di significato sfruttati per parlare direttamente a uno spettatore già consapevole del loro destino effimero.
C’è una magia particolare in Boyhood, capace di andare oltre la nostalgia del passato e la malinconia dei ricordi perduti: è l’inaspettata sicurezza di chi conosce già le risposte – o quantomeno sa da dove giungano certe domande. La maturità artistica del regista emerge oltre il sentimento e attraverso l’empatia. Dopo aver “capito la verità dell’amore” con la Before Trilogy, forse Richard Linklater è riuscito ad accettare la verità dell’esistenza, liberandosi dalla necessità spasmodica di comprendere ogni cosa. Partendo da un contesto incredibilmente familiare, non tanto nel microcosmo dei legami quanto per l’affinità emotiva di azioni e reazioni, Boyhood dimostra che nella vita non ci sono vere risposte. Il “senso” è che non bisogna cercare, bisogna vivere.
Cinema della verità
Proprio per questo, concentrandosi sulla sfera umana di protagonisti così simili a chi osserva, Linklater non si limita a presentare verità difficili da spiegare a parole: Linklater “scolpisce nel tempo”. Le parole di Tarkovskij non potrebbero essere più adatte per descrivere il significato più profondo dell’opera: Boyhood non racconta il coming of age di un ragazzo, bensì lo sfrutta come sineddoche per esplorare i significati della vita e il suo mistero indecifrabile. Una reciprocità stranissima, in cui il regista sfrutta il cambiamento che subisce in prima persona, nel reale, per raccontarlo su schermo attraverso i suoi personaggi – ancorato a una neutralità pura che domina la scena.
Questo perché Linklater si lega saldamente alla verità dell’esistenza: dalla brevità della vita all’impressione distante del passato, Boyhood si alimenta di fatti e di stimoli, non di pensieri che arrivano dall’esterno. Un caleidoscopio di emozioni e di attimi che plasmano chi siamo e danno forma al nostro vissuto, a prescindere dal contesto. Un significato che culmina verso la fine del film, quando giunge l’epifania che ribalta Cartesio: accettare che sia “l’attimo a cogliere noi” permette di raggiungere una consapevolezza che dà senso all’intera operazione – una consapevolezza che prescinde dal sé e riguarda piuttosto il vero valore di ogni istante.
L’uomo riflette all’altare del Tempo
Accogliendo il finale come chiave di lettura, sembra che Linklater abbia voluto legare il proprio dialogo alle “epifanie dell’ordinario” di Joyce: creare un’esperienza intima, quasi mistica, che sfrutti l’esistenza come mezzo di aggregazione e comprensione. Più che un’ode alla semplicità, quella di Boyhood è un’ode all’imprevedibilità della vita. Per il regista ci sono voluti 12 anni, allo spettatore basteranno meno di 3 ore, altri potrebbero metterci una vita intera per capirlo: lontano dalla ricerca spasmodica dell’attimo da cogliere, l’uomo può comprendere il reale valore del tempo e trascendere il suo stesso, limitato esistenzialismo.
L’eterno fluire non è alla nostra portata: possiamo soltanto coglierne dei pallidi riflessi, quelli che ci portano gioia o nostalgia. Guardando al film di Linklater, i giapponesi parlerebbero di mono no aware – un concetto che si lega alla consapevolezza del tempo effimero, del suo incessante mutamento, ma soprattutto della sua influenza sulla natura e sulla vita umana. Boyhood, molto più pragmatico, ragiona per sottrazione e racchiude tutto in poche battute e uno scambio di sguardi – pronti a scoprirsi, forse a capirsi, ma soprattutto a riconoscersi. Potranno passare altri 10 anni, e poi ancora altri 10, ma il valore dell’opera di Linklater non potrà che aumentare. Tra generazioni che cambiano ed esistenze che si alternano a velocità incessanti, Boyhood supera l’ostacolo del tempo rendendolo co-protagonista del suo racconto: un film, un viaggio, lungo una vita.
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