Dopo un certo numero di anni passati a prendere le misure al mondo, sappiamo, più o meno, qual è la nostra strada; siamo, più o meno, saldi nei nostri principi e abbiamo scelto, più o meno, le nostre battaglie, tutti fattori che ci definiscono e che ci avvicinano (o allontanano) a gruppi di persone nella cui opinione e nel ci sentire ci riconosciamo.
Poi capita – e nemmeno tanto di rado – un caso come quello di Blonde di Andrew Dominik, definito misogino e voyeuristico da buona parte delle persone che conosciamo e stimiamo, per lo più donne e femministe, in una quasi unanimità con cui non siamo minimamente d’accordo. Un caso di aspettative disattese? Un impulso sfidante, un moto di indipendenza nei confronti di una pletora di sorelle e mentori verso le quali abbiamo di norma un atteggiamento umile e solidale?
Posto che scoprire di essere in grado di esercitare un giudizio critico e autonomo è sempre una buona cosa, questa potrebbe essere un’occasione per riflettere sulla soggettività della percezione. Gli spoiler, invece, sono una cosa spesso oggettiva, quindi guardatevi dal proseguire nella letture di questo articolo se non avete visto il Netflix-movie del momento (che, lo ricordiamo, non è un vero biopic sulla leggendaria attrice, ma un adattamento del romanzo omonimo di Joyce Carol Oates ispirato alla vita di Norma Jeane Baker/ Marilyn Monroe).
Nel ventre di Marilyn
La “scena ripugnante e antiabortista” del dialogo col feto concepito da Norma Jeane con il terzo marito Arthur Miller (o, per Oates, il Drammaturgo) è stata la prima cosa che la sottoscritta, soprendendosene notevolmente, ha sentito descrivere a proposito di Blonde. Un regista intelligente e talentuoso come Andrew Dominik che incappa in un incidente tanto pedestre e ideologico, in cui un bambino-mai-nato rampogna la madre-mai-madre? Difficile da digerire.
E infatti non è per niente quello che succede, per lo meno nella nostra percezione. A quel punto del film, ne conosciamo la natura febbrile, trasognata, abbiamo vissuto l’esperienza dolorosa dell’aborto sotto sulla pelle dell’eroina. Ma raccontare l’ambivalenza e la difficoltà della scelta di abortire non vuol dire certo dichiararla illegittima; il film suggerisce senz’altro che Gli uomini preferiscono le bionde non fosse una ragione sufficientemente buona per rinunciare a una gravidanza, ma suggerisce anche che i figli mai nati di Norma Jeane rappresentano il suo fallimento di fare da madre a sé stessa, di generare sé stessa, ovvero una speranza di vita autentica al di là dell’artificio che illumina il grande schermo e che riempie le tasche di “Mr Z” .
Poiché a questo punto l’angoscia, la solitudine esistenziale di Norma Jeane e la sua incapacità di instaurare una relazione egalitaria e adulta con chicchessia ci appaiono come il punto al centro della lente di Dominik e Oates, ci sembra tutt’altro che centrale, anche se magari non trascurabile, il trauma dell’interruzione di gravidanza. Quando il feto dice “it’s always the same child“, nella nostra percezione non parla del figlio del Drammaturgo o di Chaplin jr. , ma della figlia di Gladys Pearl Baker e di padre ignoto.
La bambina che Dominik ci lascia accanto abbastanza a lungo da spezzarci il cuore, la bambina rifiutata che rifiuta di essere orfana, e che passerà la sua breve vita a cercare penosamente e vanamente di rimediare a quella condizione. C’è una pagina di Emmanuel Carrère che parla in termini sorprendenti del rapporto tra fragilità esistenziale e malattia, e in cui tra l’atro si dice che ci sono due tipi di persone: “Quelli che sognano spesso di cadere nel vuoto, e gli altri. I secondi sono stati amati e supportati, e camminano con fiducia sulla terra ferma. I primi soffrono per tutta la vita della vertigine e dell’angoscia, del sentimento di non esistere davvero.”
I figli perduti di Norma Jeane sono il tentativo disperato di esistere davvero, che l’immagine scenica, Marilyn Monroe, rende vano; la sua storia non è un infanticidio, ma un’autodistruzione.
Il corpo nudo: natura e artificio
Un’altra accusa che è stata mossa al film di Dominik è lo sfruttamento del corpo della protagonista, a cui si presta la generosa e incantevole Ana De Armas. Ma la nudità “gratuita” di De Armas ci sembra una precisa scelta artistica che delle reificazione e della sessualizzazione del corpo femminile fa scoperta denuncia. Il corpo nudo di Norma Jeane dovrebbe essere gioia e purezza davanti allo specchio nella scena della seduzione dei due “Gemelli”. Perché non lo è? Portate pazienza se ci vengono in mente le parole di un altro autore (maschio!) che sul corpo di cose ne ha dette parecchie, e pure illuminanti, Umberto Galimberti: “Un corpo nudo come natura l’ha fatto, non è seducente senza l’intervento dell’artificio, in grado di scongiurare la semplice nudità e cancellare la naturalità di un corpo in sé e per sé insignificante.”
Norma Jeane è il corpo, Marilyn – lo esplicitiamo qualora ce ne fosse bisogno – è l’artificio, un’eredità culturale onnipresente e ineludibile che il nostro sguardo si porta dietro quando si posa su quel “corpo nudo come natura l’ha fatto”. Marilyn, l’artificio, il simbolo, si fonde con la storia predatoria dello sguardo maschile nella ragione per cui non riusciamo più a vedere la naturalità del corpo in un seno come quello di Ana De Armas (ma nemmeno in quello di una donna che sfama un neonato su una panchina al parco, che infatti spesso ci turba).
Il seno di Norma Jeane è nudo in altra scena molto dolorosa del film, quella in cui si scatena la violenza del secondo marito, l’Ex Atleta. E ancora, il turbamento è comprensibile di fronte a tanta fragilità senza speranza, ma Dominik il nostro voyerismo lo sta sfidando, lo sta mettendo in discussione, non lo sta mica solleticando. Se l’effetto prodotto in noi non è l’orrore e la nausea ma è l’eccitazione sessuale, c’è una ragione: siamo messi di fronte alla brutalità alla base degli stereotipi sul rapporto tra eros e violenza, tra sensualità e passività femminile. La nostra percezione dipende anche da quante occasioni abbiamo avuto per riflettere su questi temi, su quanto ci sia di naturale e quanto di socio-culturale nella nostra risposta erotica.
Lasciateci chiamare in causa un altro passo di Galimberti: “Il corpo spogliato e artificialmente prodotto per la seduzione non dispiega infatti una “scena” intorno a sé, in cui anche le cose dicono le sue intenzioni, ma è semplicemente “messo in scena”, e perciò è o-sceno, perché è offerto secondo quelle regole del gioco che lo fanno più nudo di quel che sia. […] In questo caso la seduzione gioca con la morte, e quindi, per sadica che sia, è sempre masochista.” Alla fine del tratto di strada che facciamo al suo fianco, perduta Norma Jeane, la Marilyn di Oates e Dominik offre al nostro sguardo colpevole null’altro che l’artificio – alieno, mostruoso, osceno è il corpo predato, consumato e condannato.
Nella stanza del Presidente
Ci sentiamo in dovere di accennare infine alla seconda scena più discussa del film, dopo quella “antiabortista”, anche se il senso di nausea che ne ha accompagnato la visione non ne vuole sapere di attenuarsi. Abusi sessuali sono presenti anche altrove nella pellicola e, come chi scrive ribadisce abbastanza spesso, sono parte della realtà e quindi oggetto d’interesse e responsabilità di chi fa arte raccontando la realtà. Anche se “realtà” forse non è il termine che meglio si attagli al fulgido incubo che è Blonde, un meta-biopic, o denouement poetico/ immaginifico del sex symbol.
Resta il fatto che Norma Jeane di abusi ne subì eccome e non solo nelle terribili pagine di Oates, e che di commenti fuori fuoco su questa scena – parliamo naturalmente dell’interminabile e odiosa fellatio al Presidente – ne abbiamo sentiti troppi. Nessuno aveva mai fatto risuonare in tal modo la voce della compiacenza femminile, al culmine dell’umiliazione e dell’abiezione. Anche se ogni donna che sogna spesso di cadere nel vuoto l’ha sentita. Dice:
“Non vomitare. Non tossire. Non soffocare. Devi ingoiare”
La percezione è soggettiva. La nostra reazione a messaggi complessi e ambigui come il cinema di Andrew Dominik dipende dal nostro background, dalle nostre aspettative, del nostro livello di sintonia con il linguaggio e le intenzioni dell’autore. Ad onta di tutto ciò, come una denuncia tanto onesta e brutale della subordinazione e dello sfruttamento del corpo, dell’immagine, della psiche femminile possa essere interpretato come misoginia, per noi è un bel mistero.
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