È il 1992, i presidenti Bush Sr. e Boris Él’cin dichiarano ufficialmente la fine della Guerra Fredda. A pochi mesi di distanza un giovane Bill Clinton vincerà le elezioni presidenziali. Nei Balcani la situazione è ormai fuori controllo, nel corso dell’anno inizierà ufficialmente la Guerra in Bosnia. Per l’Italia il 1992 non è un anno ma una sliding door le cui conseguenze le vediamo ancora oggi. È il periodo dell’inizio dell’inchiesta Mani Pulite, della Strage di Capaci, della fine “ufficiale” della Prima Repubblica.
Nello sport è l’anno del folle europeo vinto dalla Danimarca ripescata, del secondo titolo dei Bulls di Jordan, del “dramma” della finale di Coppa dei Campioni persa dalla Sampdoria ai supplementari. A Barcellona si disputano le Olimpiadi nelle quali nascerà il leggendario Dream Team. Nel ciclismo Indurain centra l’accoppiata storica Giro – Tour.
Nelle cuffie di tutto il mondo impazza I Will Always Love You, la cover con cui Whitney Houston si presenta al cinema insieme a Kevin Costner mentre in Italia gli 883 uccidono l’Uomo Ragno. Il film campione di incassi dell’annata è Aladdin, un ulteriore tassello di quel Rinascimento Disney iniziato nel 1989 con La Sirenetta. Agli Oscar è trionfo assoluto per Il Silenzio degli Innocenti e per il “nostro” Mediterraneo come Miglior Film Straniero. Al Noir Film Festival di Viareggio si aggira un americano, soprannominato “il matto”, che al termine della rassegna presenterà il suo film d’esordio: Le Iene. Trent’anni in cui sembra cambiato tutto ma, a guardar bene, neanche troppo.
Il 1992 è anche l’anno in cui Tim Burton torna per la seconda e ultima volta a raccontare il mondo di Bruce Wayne. Un film ancora oggi unico. Trent’anni di Batman – Il ritorno, di freaks, gatte e pinguini.
Birth of a Penguin
La camera volteggia fino a sorpassare il cancello di Vila Cobblepot. Lì si ferma e si alza fino a inquadrare, in modo sbilenco, una grande vetrata illuminata da calde luci gialle dall’interno, una figura in ombra viene disegnata dal contrasto. Entriamo nella dimora e vediamo l’uomo che dava origine a quella silhouette: elegante, fuma una sigaretta con l’ausilio del bocchino, è dotato di monocolo. In sottofondo i suoni di una donna che sta affrontando il parto. Poi improvvisamente i vagiti del neonato, delle urla, l’infermiera e il medico che scappano dalla camera. L’uomo si dirige verso l’altra stanza, entra e si abbandona a un urlo di spavento e disperazione. Facciamo un balzo in avanti, è Natale. I genitori sono spaventati dall’essere che hanno messo al mondo, lo tengono in una sorta di gabbia. Decidono di disfarsene. Si recano al parco più vicino e buttano la culla in un canale di scolo che porta direttamente alle fogne. Seguiamo tutto il percorso interno ai cunicoli del sistema fognario finché il lettino non si arena davanti a dei pinguini.
Questi sono i primi cinque minuti e trenta di Batman Returns. Un’intro in cui non sentiamo mai parlare se non per uno sporadico “Merry Christmas” scambiato tra i Cobblepot e un’altra coppia poco prima di abbandonare il figlio. Tutto ciò che arriva al nostro udito sono urla, versi e l’onnipresente colonna sonora di Danny Elfman. L’intera carriera di Tim Burton è riassumibile in questi 300 secondi in cui è racchiuso anche un avvertimento allo spettatore: quello che state vedere non è un film su Batman ma semplicemente con Batman.
Di freaks, pinguini e gatte
Se l’intro poteva lasciare dei dubbi (d’altronde lo stesso Nolan in Il Cavaliere Oscuro apre con cinque minuti dedicati alla rapina di Joker) la non centralità del Crociato Incappucciato è certificata da ogni passaggio cardine del film di Burton.
Burton, il quale accettò il lavoro solo dopo aver avuto garanzie sulla massima libertà di far quello che voleva, elabora qua tutto il suo discorso autoriale che aveva già avuto un tassello fondante in Edward Mani di Forbice, uscito un paio di anni prima. Una visione, sia tematica che estetica, che a ben vedere non farà che replicare per la quasi totalità della sua carriera. Abbiamo la normalità come vero mostro, tanto che il vero villain è il capitalista senza scrupoli interpretato da Christopher Walken. Tutte le altre persone comuni nel film non hanno alcun ruolo, se non quello di pecore urlanti alla ricerca di un qualsiasi nuovo pastore. Dal lato opposto i teorici villains diventati adorati freaks: Pinguino e Catwoman.
L’Oswald Cobblepot interpretato da un Danny DeVito, alla prova della sua carriera, è il vero protagonista del film. L’unico ad avere un arco narrativo compiuto, il personaggio a cui son dedicate le migliori sequenze (oltre all’intro anche la presentazione di ArticWorld) e a cui far interpretare i monologhi più significativi. Burton tratteggia un Pinguino confuso e abbandonato da genitori e dalla società, pronto a diventare all’occorrenza eroe o mostro di Gotham. A livello estetico lo deforma in ogni modo, lo fa vivere di pulsioni e istinti. A tutti gli effetti lo porta a diventare il Gollum di quell’universo narrativo a cui girano attorno una serie di personaggi circensi tutti unici.
Che dire poi della Catwoman di Michelle Pfeiffer, diventata icona di assoluto rilievo della cultura pop. A lei Burton dedica tutto il finale del film in una (non) chiusura di solito riservato a eroi e protagonisti. Interessante poi osservare come le cuciture in risalto sulla tuta della gatta siano le medesime apparse in gran parte delle opere burtoniane. Ma tutto Returns contiene una dose di body horror che quasi mai viene riconosciuta al regista californiano.
Infine abbiamo Batman, schiacciato e messo in disparte, chiamato solo in caso di (brutte) scene action e comparsa di ogni snodo principale, finale compreso. Un freak che preferisce nascondersi dietro una maschera. Burton sembra per questo colpevolizzarlo lungo tutto il lungometraggio, tanto da strappargliela lasciandolo a viso scoperto nello scontro decisivo.
Batman Returns è, a conti fatti, molto più vicino a un remake del Freaks di Tod Browning che a un cinecomic su Batman. E quando oggi ci approcciamo a un nuovo titolo del MCU, della Distinta Concorrenza o di qualsiasi adattamento, cercando di cogliere l’impronta dell’autore là dove è possibile, dovremmo sempre fare il paragone con il film di Burton. Perché a trent’anni di distanza, in un’epoca in cui i film tratti dai fumetti dominano mercato e immaginario, Batman Returns rimane l’unico vero cinecomic d’autore.