Da qualche giorno è disponibile nelle sale italiane X – A Sexy Horror Story, il nuovo lungometraggio del regista horror Ti West. Un film che, in base alle nuove norme dei limiti d’età in Italia, si è ritrovato con un bel VM18 (ma quasi nessuno precisa che c’è un’esenzione: chi ha massimo due anni di meno può vederlo se accompagnato da un adulto). La motivazione è legata a “l’insieme delle scene in cui sono presenti uno o più contenuti sensibili, il tono e l’impatto potenziale delle stesse nonché il contesto narrativo, il livello di intensità del contenuto sensibile rilevato”, frase che molti hanno interpretato come eccessivamente puritana nei confronti del contenuto sessuale del film, su un gruppo di giovani che vuole girare un porno in Texas e finisce nel mirino di un misterioso killer.
Una situazione che ci ha fatto pensare a un altro film che mescola sesso e sangue, e che proprio nel 2022 compie trent’anni (in Italia uscì il 18 settembre, sei mesi dopo il debutto americano): Basic Instinct, thriller erotico che ai tempi nelle nostre sale poté uscire con un “semplice” VM14 (mentre in patria dovette essere accorciato per poter ottenere il visto R, ossia il divieto ai minori di 17 anni non accompagnati). Un’opera ormai letteralmente d’altri tempi, di quelle che non si fanno più, dato che con poche eccezioni (e quasi tutte a firma di registi non americani, come Adrian Lyne e Andrew Dominik) il sesso è diventato un tabù visivo nel cinema USA.
Prima il piacere, poi il dovere
Realizzato in un periodo dove questo tipo di materiale rischiava di finire nel dimenticatoio (all’epoca per via delle paranoie legate all’AIDS), Basic Instinct si apre con una dichiarazione d’intenti: la prima sequenza è quella dove Catherine Tramell accoltella Johnny Boz mentre stanno facendo sesso (no, non è uno spoiler: anche se è inquadrata strategicamente perché non la si veda bene in faccia, è palesemente Sharon Stone in quella scena). Il regista Paul Verhoeven e lo sceneggiatore Joe Eszterhas (che ai tempi fu pagato la cifra record di tre milioni di dollari per il copione) sembrano volerci dire: “Questo è il film che abbiamo fatto, prendere o lasciare.” Il cineasta olandese, forte del suo spirito europeo, ha più volte parlato di come volesse mettere alla prova la censura americana, con un film il più esplicito possibile. E i produttori, per lo più, furono dalla sua parte. Una delle poche concessioni: per ragioni puramente commerciali (perché avrebbero avuto il visto NC-17, ossia il divieto assoluto ai minori di 18 anni, con associata riduzione del numero di sale), Verhoeven non poté realizzare il suo sogno di firmare il primo lungometraggio mainstream statunitense in cui si vede un pene eretto.
Qualche minuto dopo quella scena, Nick Curran (Michael Douglas) e Gus Moran (George Dzundza) vanno a casa di Tramell per indagare sul suo rapporto personale con Boz, e lei risponde con una delle battute cult della pellicola, in originale: “I wasn’t dating him. I was fucking him.” È tutta una questione puramente fisica, di piacere allo stato brado: il sesso, anzi, la scopata come sincero atto edonistico, senza considerazioni intellettuali o emotive. Con Tramell che, a suo modo, è l’avatar di Verhoeven, l’europeo che fa tremare Hollywood con il suo atteggiamento sessualmente liberale (celebre l’aneddoto su come la moglie, olandese fino al midollo, gli diede il permesso di andare a letto con Sharon Stone, qualora lo avesse voluto). Basti pensare alla scena dell’accavallamento delle gambe, che fece colpo su tutti, tra cui Steven Spielberg, che rimase in sala durante i titoli di coda per appuntarsi il nome dell’attore che interpretava il poliziotto sudato in quella sequenza: era Wayne Knight, a cui il regista offrì poi il ruolo di Dennis Nedry in Jurassic Park.
Mistero rovente
È un film fuori dal tempo, con atmosfere da noir in salsa hitchcockiana (merito della fotografia di Jan De Bont e della musica di Jerry Goldsmith), ma anche un prodotto dell’era in cui è stato realizzato, nel bene e nel male: Eszterhas ha successivamente ammesso che, essendo la pellicola ambientata nell’anno di uscita, l’assenza di analisi del DNA è un buco di sceneggiatura di non poco conto. Ma in fin dei conti l’enigma è la parte meno interessante, dato che l’identità della killer, come già detto, è evidente dai primi minuti del film. Il poliziesco è una scusa per tuffarsi nei recessi più disinibiti dell’animo umano, con l’atto sessuale come specchio letterale e metaforico del comportamento istintuale all’ennesima potenza (declinato poi in chiave comica qualche anno dopo in Viaggi di nozze, dove Ivano e Jessica lo “fanno strano” spostando gli specchi della loro stanza d’albergo).
Ancora oggi, come dice Curran riferendosi a Tramell, a livello cinematografico è stato “la scopata del secolo”, che lascia il ricordo indelebile della nascita di Sharon Stone come grande star e quello sbiadito del bruttissimo sequel, una delle grandi occasioni sprecate del cinema statunitense: a un certo punto doveva farlo – ed era veramente interessato – un certo David Cronenberg…