Ormai ci siamo talmente abituati al cinema come luogo destinato ai mirabolanti effetti speciali che spesso ci dimentichiamo della presenza di alcuni film che, benché più piccoli e quasi invisibili, non hanno niente da invidiare agli ultimi blockbuster di successo. Certo, non troveremo follie in digitale, esplosioni e spettacolari sequenze d’azione, ma il motivo per cui ci appassioniamo alle storie.
Ada è proprio uno di quei film che porta con sé l’unico effetto speciale che conta: l’empatia. Vincitore della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2021, l’opera seconda di Kira Kovalenko arriva finalmente al cinema in Italia grazie a Movies Inspired, etichetta da sempre molto attenta al cinema d’autore che conta, nella sua dimensione che più si adatta alla storia: quella del grande schermo. Perché Ada è uno straordinario film in cui ci viene ricordato cosa significa guardare.
La trama del film
Film di una bellezza innaturale, capace di smuovere il proprio pubblico, Ada racconta la storia di una giovane ragazza, costretta a vivere in una cittadina remota e desolata col padre e il fratello minore, seguendo le loro regole di un mondo patriarcale e oppressivo. La giovane potrà contare solo sul ritorno del fratello maggiore, che lavora in una ben più moderna città, per pianificare una fuga da questa vita monotona in cui si sente imprigionata. Una trama semplice, che potremmo definire una piacevole alchimia tra il teen drama e il coming of age. Cos’è che rende Ada un film unico nel suo genere?
Gli occhi di un’attrice
Un’inquadratura e un’azione. Basta così poco ad Ada per presentare tutto il cuore del suo racconto, dimostrazione di un talento, da parte della regista russa, cristallino e fuori dal comune, e presentare sé stessa. La giovane ragazza è appoggiata al muro di una strada, la testa china, finché non apre gli occhi e osserva. Quegli occhi faranno compagnia allo spettatore per tutta la durata del film. In quel primo colpo d’occhio partecipiamo alla creazione di un legame che è destinato a non spezzarsi mai (e infatti solo la fine della bobina della pellicola potrà impedirci di proseguire la nostra avventura con lei).
Milana Aguzarova, l’attrice che interpreta la protagonista (un talento vero) parla con gli occhi, nascondendo spesso e volentieri naso e bocca dietro la zip della giacca, timida eppure instancabile di vedere il mondo. Instancabile di lasciarsi guardare. Così come i ragazzi che flirtano con lei, anche noi spettatori rimaniamo rapiti da questa storia girata e interpretata con una naturalezza che lascia abbagliati e spaesati. D’altronde, che cos’è il cinema se non l’essenza stessa del guardare? Il film Ada rievoca quell’istinto primario che spesso e volentieri sottovalutiamo e diamo per scontato quando ci troviamo davanti allo schermo. Perché è proprio nell’atto di guardare che instauriamo un rapporto empatico (e, perché no, d’amore) con i personaggi delle storie, così distanti da noi, eppure così vicini. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli di Ada sono lo specchio del cinema stesso.
Nella morsa di un abbraccio
Quanto è importante saper guardare un film? Ada è tutto giocato su questo: su piccoli e comuni gesti che acquistano significati diversi in base alle persone e al momento in cui avvengono. Come gli abbracci. A volte dimostrazione d’affetto sincero, azione che parla col tatto e con la forza dove le parole non sanno esprimersi; altre volte volontà di bloccare, catene di muscoli e carne che imprigionano la protagonista in un mondo che sembra non volerla libera. È solo attraverso il modo in cui osserviamo reagire i corpi, che si tendono o si rilassano, i volti, che soffocano le emozioni o le esprimono, che doniamo senso a ciò che ci viene raccontato. In un periodo in cui la parola nelle opere audiovisive ha preso il sopravvento, in cui i sentimenti vanno sempre più dichiarati a voce che sottaciuti, Ada ricorda l’importanza del silenzio, dell’immagine come portatrice di contenuto.
Rendere straordinario l’ordinario. La regia di Kira Kovalenko è un capolavoro di tatto e di raffinatezza. Mai troppo invadente nei confronti di Ada, rinuncia a uno sguardo voyeuristico e insistito, ma rimane a debita distanza, spogliando di ogni tipo di pietismo o malizia il racconto doloroso della protagonista. Così Ada diventa una persona comune che non intende aprirsi a noi (spesso e volentieri tenderà a nascondersi), ma che non rinuncia a essere scoperta e compresa.
Guardare oltre
Binge-watching, trame iper-esposte, la comfort zone di un algoritmo che consiglia ciò che già ci piace, in modo da rimanere ancorati in una catena di montaggio di storie simili e quindi interscambiabili. Il risultato è che abbiamo impigrito il nostro sguardo, dimenticandoci il profumo delle storie che non conosciamo. Ada è un film che ci invita a riscoprire un profumo nuovo, capace di lasciare un alone nella nostra memoria. Impossibile dimenticarsi di un film come Ada, una volta arrivati ai titoli di coda. Impossibile perché, soprattutto oggi, questo folgorante lungometraggio appare come una visione rara e speciale.
Lontano dai canoni e dai pattern a cui siamo abituati, volonteroso di stimolare il proprio pubblico e non lasciarlo adagiato, Ada prende il proprio pubblico, e lo abbraccia. Basta questo per fare grande cinema? Forse è il caso di fare un passo indietro e tornare a cercare la bellezza nelle piccole cose e non solo nel puro spettacolo titanico. A volte è proprio la storia più piccola che è capace di rendere lo schermo gigante. A patto che si guardi bene. A patto di aprire gli occhi.