Bob Dylan è sempre stato tutto e nulla al tempo stesso. Un uomo velato dalla sua natura di artista a tutto tondo, capace di contemplare la propria personalità soltanto quando filtrata da occhi altrui. Per un’anima così complessa, il cinema non poteva essere altro che l’ennesima fascinazione: il legame tra Dylan e la settima arte è un gioco di riflessi mirabolanti e di curiose digressioni, la faccia più bella di un mistero ancora da svelare. A Complete Unknown, nelle sale dal 23 gennaio per Searchlight Pictures, ne rappresenta forse lo slancio fondamentale: Timothée Chalamet incarna il giovane Bob, “the one who goes electric” tra i club newyorkesi, in un’ascesa lunga 5 anni – fino al 1965.
Una manciata di istanti per una carriera pluridecorata e ammirata persino oltre la sfera musicale, necessari per risalire all’origine di un talento che si fonde all’arte tutta, destinato a evadere in eterno dallo spettro della normalità. Bob Dylan, icona delle maschere, è uno dei volti più curiosi del mondo moderno: un menestrello capace di raccontare l’esistenza e di prendersene gioco attraverso la sua natura cangiante e contraddittoria. Se l’intento fosse quello di raccontare una certa verità, aggrapparsi all’ennesimo biopic sarebbe senza dubbio la scelta peggiore. Lo sa bene James Mangold, che già aveva diretto Walk the Line e che si ritrova dietro la macchina da presa: non bisogna avere la presunzione di fornire tutte le risposte.
Quando si parla di Bob Dylan, dell’enigma in persona, “non c’è niente di più stabile del cambiamento”: il grande cinema, che da sempre lo corteggia e gli gira intorno, è quello che riesce a mescolarsi al suo fluire, suscitando le giuste domande.
Essere (o non essere) Bob Dylan

Nel caso di un artista auto-riflessivo come Dylan, ragionare sul concetto di identità rappresenta forse il primo passo per poter svelare l’arcano oltre la leggenda. Chiunque si sia goduto anche solo per un istante la fama stellare del personaggio sa che gran parte del suo fascino nasce proprio dall’ambiguità: la sua vita, le sue storie, le sue canzoni appartengono a un mondo sconosciuto ai più – uno spazio ideale che lui stesso si guarda bene dal mostrare. Era solo questione di tempo prima che il Cinema catturasse la sua attenzione: il grande schermo, custode di entità effimere, ha permesso a Dylan di coltivare il suo inganno senza mai frenarne l’ambizione. Se è vero che l’arte è un demone dalle molte facce, la finzione cinematografica ne è il principale specchio e testimone.
Per Bob Dylan il Cinema è stato prima di tutto passione – lo si riconosce nella sua ossessione per Gioventù Bruciata e per quel modo di fare che richiamava il primo James Dean, nelle foto scattate come Marlon Brando ne Il Selvaggio. Lo zio di Dylan, proprietario di una piccola sala, lo ha visto più volte fantasticare guardando Fellini e John Wayne. Difficile dire se il mito sia nato grazie all’emulazione, ma è certo che il protagonista di questa storia si sia chiesto spesso cosa si trovi oltre quel velo di apparenze: l’idea di poter essere chiunque dall’altra parte di uno schermo (sia esso fisico, come quello del cinema, o figurato, come quello delle pagine e dei dischi) è forse l’unica certezza che lega il mistero alla realtà.
“All around this world”

Al contempo, anche il Cinema (e chi ne fa parte) si è posto più volte l’obiettivo di risolvere l’enigma di Bob Dylan. I documentari hanno indagato incessantemente tra carriera e vita privata senza mai trovare il bandolo della matassa, alzando bandiera bianca contro il genio della truffa. Che si trattasse di Pennebaker o Scorsese, la musica è sempre rimasta centrale – al punto da non permettere mai di penetrare l’intimità dell’uomo. Mangold, che dal documentaristico si tiene cautamente alla larga, affronta una personalità in crescita da punti di vista differenti: non guarda indietro, ma si prospetta sempre in avanti – anche nelle sequenze più romanzate. Ci avevano già provato i fratelli Coen, raccontando Greenwich Village nel meraviglioso A proposito di Davis: lì la figura di Dylan è appena accennata, ma pervade con la sua aura l’intera pellicola.
L’opera che più si è avvicinata a carpire l’essenza del mondo Dylan è stata I’m not there di Todd Haynes: l’unico tanto coraggioso e consapevole dell’ineffabile mistero da tradurlo attraverso sei personaggi differenti. Poeta, Profeta, Fuorilegge, Fantoccio, Martire del Rock, Star Elettrica: sei anime per un Bob che cambia costantemente davanti agli occhi dello spettatore e che con lui instaura uno scambio continuo, diretto, da cui è difficile uscire vincitori. L’artista in pillole, presentato così com’è senza un libretto per le istruzioni (se non per i fan più accaniti). L’unica soluzione realmente possibile per tramutare in immagini la carriera di un artista che del cambiamento ha fatto la sua bandiera.
“Tu chi sei?”
“Bella domanda“, dice Dylan. Sicuramente più bella di qualsiasi risposta.
Un perfetto sconosciuto

L’arrivo di A Complete Unknown non sorprende certo per le sue dinamiche: era solo questione di tempo prima che si tornasse a curiosare nell’abisso profondo di Bob Dylan. Quasi doveroso, se è vero che l’arte richiama sempre altra arte per aprirsi a un dialogo universale. In questo gioco di eterni ritorni, Dylan rappresenta una figura più unica che rara per il Cinema moderno: pur interpretando mille ruoli diversi, resta uno dei pochi che della settima arte è stato tanto amante quanto seduttore. Difficile comprendere se la farsa perpetua sia nata dalla voglia di sfuggire alla definizione di sé, o se si tratti piuttosto di una sfida a un mondo in balia delle proprie incongruenze.
Tra storia e mitologia, A Complete Unknown intende raccontare un viaggio interiore che rispecchi il dilemma artistico (anche attraverso concetti spesso dimenticati o non del tutto sinceri). È il prezzo da pagare per scoprirsi, ma soprattutto per diventare ciò che si è destinati a essere. “Diventare Bob Dylan”, questa sì che è una storia interessante: parlare di autenticità sfruttando l’icona delle apparenze, libera per definizione, per veicolare un messaggio più profondo direttamente dal centro della scena. Sul palco, anche se solo per qualche istante, si consumano l’estasi e il mistero, mostrando la forza di quelle parole che sembravano poter cambiare il mondo. La dimensione ideale per chi non è davvero qui – chi, probabilmente, resterà sempre un perfetto sconosciuto.
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