Quando, l’8 febbraio, sono state annunciate le nomination per la novantaquattresima edizione degli Oscar, l’esito della gara come miglior film era parso quasi scontato: Il potere del cane, reduce dal trionfo ai Golden Globe, si era aggiudicato ben dodici nomination, ben oltre le aspettative, mentre i suoi concorrenti più temibili, Belfast e West Side Story, si erano fermati a quota sette. Spalleggiato dal consenso unanime della critica e ricoperto di candidature nel corso dell’intera awards season, il dramma a sfondo western diretto da Jane Campion – a sua volta favorita indiscussa per l’Oscar alla miglior regia – sembrava destinato a diventare il primo titolo Netflix a ottenere la statuetta come miglior film. Ma a partire dal 27 febbraio, qualcosa ha cominciato a cambiare: CODA, distribuito in Italia direttamente in home-video con il titolo I segni del cuore, ha ricevuto il premio per il miglior cast agli Screen Actors Guild Award, i riconoscimenti assegnati dai centosessantamila membri del sindacato americano degli attori.
Miglior film: una gara ancora aperta
Vincere lo Screen Actors Guild Award per il cast è indice di un consenso molto diffuso fra gli “addetti ai lavori”: nelle precedenti edizioni questo premio è stato assegnato a titoli quali Parasite, Il caso Spotlight e Birdman, ricompensati in seguito anche con l’Oscar come miglior film. Se tuttavia l’equazione non è così immediata, l’ultima settimana ci ha dimostrato che l’entusiasmo per la pellicola scritta e diretta da Sian Heder non era un fuoco di paglia: ai BAFTA Award Il potere del cane ha vinto i premi per miglior film e regia, ma si è visto sottrarre il trofeo per la miglior sceneggiatura dalla Hader, che ieri notte si è aggiudicata pure il Writers Guild Award; e soprattutto, sabato scorso I segni del cuore ha conquistato il Producers Guild Award come miglior film del 2021.
Insomma, a pochi giorni dalla cerimonia degli Oscar, la competizione nella categoria principale di colpo appare apertissima, con due contendenti (su un totale di dieci candidati) che non potrebbero essere più diversi fra loro.
Il potere del cane e I segni del cuore
Il potere del cane, atteso ritorno al cinema della grande regista neozelandese Jane Campion e interpretato da Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst e Kodi Smit-McPhee, mette in scena un coacervo di tensioni e di pulsioni distruttive in un ranch del Montana negli anni Venti, fino a culminare in un epilogo amaro e raggelante. I segni del cuore, remake americano della commedia francese La famiglia Bélier, è invece la storia di una ragazza della provincia del Massachusetts che prova a tenere viva la propria passione per il canto pur senza riuscire a condividerla con la propria famiglia, composta da persone sordomute. Presentato oltre un anno fa al Sundance Film Festival, I segni del cuore era stato acquistato per una lauta cifra da Apple TV+, che lo aveva distribuito in piena estate in streaming: un’uscita un po’ in sordina, ma che ha trasformato la commedia di Sian Heder nel piccolo outsider in grado di arrivare fino alla ribalta degli Oscar e di sfidare le opere di autori quali Paul Thomas Anderson, Kenneth Branagh, Steven Spielberg e, appunto, Jane Campion.
Una vittoria (quasi) senza precedenti?
Quante sono le effettive chance de I segni del cuore di mettere le mani sul massimo riconoscimento dello show business americano? Difficile a dirsi: lo Screen Actors Guild Award e il Producers Guild Award sono indici di una vastissima popolarità, ma agli Oscar il film può contare su ‘appena’ tre nomination, con Troy Kotsur superfavorito come miglior attore supporter e la Heder che sfiderà proprio la Campion per la miglior sceneggiatura adattata. Tre nomination, in generale, sono un pessimo presupposto per ambire a vincere come miglior film: negli ultimi quarant’anni, The Departed (nel 2007) e Green Book (nel 2019) ce l’hanno fatta con cinque nomination a testa, mentre tutti gli altri vincitori partivano da una quota più alta.
Dobbiamo tornare indietro addirittura di novant’anni, alla quinta edizione degli Oscar, per trovare un “miglior film” con meno di cinque nomination, ovvero Grand Hotel (che aveva un’unica candidatura), ma è un precedente che non conta granché: quell’anno infatti le categorie riservate ai lungometraggi erano soltanto otto, e quasi tutte comprendevano appena tre candidati.
Il potere del cane: troppo cupo per l’Academy?
Ma al di là dei numeri e delle statistiche, che restano più che altro materiale da appassionati, è ben più interessante riflettere sui motivi che hanno portato I segni del cuore e Il potere del cane a fare la parte del leone ai prossimi Oscar e sugli effettivi meriti delle due pellicole. Ponendo la questione sul piano estetico, Il potere del cane è un titolo indubbiamente superiore, che usa in maniera superba tutti gli elementi del linguaggio cinematografico per raccontare una storia ricca di ambiguità e di sfumature. È un film che richiede allo spettatore di prestare attenzione, di riempire i ‘vuoti’, e che non ha nulla di rassicurante né di consolatorio: i tre comprimari sono un cowboy rude e violento che reprime la propria omosessualità, una donna alcolizzata e divorata dall’insicurezza e un giovane impenetrabile che rivelerà una spietata mente criminale. Lo ribadiamo: quella della Campion (qui la nostra recensione del film) è un’opera magnifica, assolutamente in grado di scuotere e di emozionare, ma troppo ‘cupa’ per poter galvanizzare un pubblico molto ampio e trasversale. E l’Academy, vale la pena ricordarlo, oggi conta quasi diecimila membri.
Le ragioni del cuore e quelle degli Oscar
I segni del cuore, viceversa, non ha particolari ambizioni artistiche e non rientra neppure nel filone (tanto amato agli Oscar) del cinema impegnato, al di là del suo messaggio sull’inclusività: è un film lineare, prevedibile, magari con un tocco di ruffianeria, ma nel complesso piacevolissimo. Ed è stata appunto tale piacevolezza la sua arma vincente: ha come protagonista una “disadattata di talento” (interpretata dalla ventenne Emilia Jones) per la quale è difficile non parteggiare; personaggi un po’ sopra le righe che riescono a farsi voler bene; e una scena finale che, complice la splendida Both Sides, Now di Joni Mitchell, farebbe commuovere perfino i sassi.
Si tratta di un grande film? No, e va bene così: spesso abbiamo bisogno pure di film semplici, confortevoli, che facciano leva su formule familiari adoperate in modo efficace. Ma l’Oscar, perlomeno in linea teorica, dovrebbe ricompensare soprattutto altro: è un premio dell’industria, ma anche un premio all’arte. Pertanto la speranza è che, a differenza di tanti Oscar ‘populisti’ del passato, stavolta l’Academy faccia la scelta giusta e, fra I segni del cuore e Il potere del cane, sappia distinguere il miglior film da quello più ‘piacevole’.