Cos’è successo alla Pixar? Che fine ha fatto quello studio d’animazione che sembrava inarrestabile, capace di sfornare a distanza di breve tempo una serie di straordinari capolavori? L’uscita di Red, il loro venticinquesimo lungometraggio, sembra aver confermato una sensazione che, per molti, potrebbe risultare quasi blasfema: la Pixar ha perso il suo tocco magico.
Diciamoci la verità: potevamo aspettarcelo. C’è stato un periodo in cui lo studio d’animazione era riuscito a superare la qualità dei Classici Disney, dando vita a opere alla portata di tutti, capaci di emozionare (e non poco) sia un pubblico più giovanile che la controparte adulta. Wall-E, Toy Story 3 – La grande fuga, Up, Coco sono solo alcuni dei film, appartenenti al passato recente, che tutti si ricordano, senza riuscire a trattenere gli occhi lucidi al solo pensiero.
Poi qualcosa sembra essersi rotto. Troppi sequel che, nonostante l’innegabile successo e la solita clamorosa qualità tecnica, lasciavano presagire un calo di idee. Infine, dal 2020, l’uscita di ben quattro titoli (con un quinto, Lightyear, in arrivo nel corso dell’anno), che non sono riusciti a entrare nell’immaginario collettivo, tutti considerati in qualche modo “minori” rispetto allo standard a cui la Pixar ci aveva abituato.
Il lungometraggio d’esordio di Domee Shi, che abbiamo recensito qui, ha generato, nel suo weekend d’esordio, un grosso dibattito sui social, più o meno violento, che mette in luce quello che viene definito un vero e proprio declino.
La Pixar è peggiorata. Incapace di dare vita a storie memorabili come una volta, bloccata nei propri stilemi e nella propria formula, sembra essersi persa.
Una conclusione semplice (e anche naturale, dopo decenni di produzioni), che non tiene conto di una domanda più complessa e scomoda: possibile, invece, che ci siamo persi noi spettatori?
Alla ricerca di splendori
Per uno strano scherzo del destino, le ultime sfumature che la maggior parte del pubblico ritiene esistenti in campo cinematografico sono quelle della trilogia erotica con protagonisti Anastasia e Christian Grey. Negli ultimi anni il pubblico (e, non nascondiamoci dietro a un dito, pure molta parte della critica) sembra aver perso, invece, quelle relative al giudizio di un’opera.
Non esistono più film semplicemente belli. Esistono solo meraviglie, pellicole straordinarie, opere bellissime da vedere assolutamente. Così come non esistono più film solamente discreti o non del tutto riusciti, ma solo disastri improponibili, pasticci senza capo né coda, prodotti orribili (giusto per usare alcuni dei termini meno volgari che si possono leggere sul web).
Si è alla ricerca costante di capolavori, tesori che si devono ergere rispetto alla media (perché la media, nel frattempo, è diventata un calderone scadente) e che devono fare i conti con tutto quello che è venuto prima. Si paragona continuamente il nuovo con il vecchio, a volte non tenendo conto che si è solo alla ricerca di un irrecuperabile passato idealizzato. Senza sfumature, il contrasto si riduce a una visione in bianco e nero con toni sempre più accesi. Dare un parere su un film equivale a scegliere uno schieramento tra curve dello stadio, poste ai lati opposti di un campo da gioco che non premia mai.
Si tratta di un primo limite che riguarda soprattutto noi spettatori. Forse è una normale conseguenza di una saturazione di nuovi contenuti, scelti appositamente per noi da un algoritmo che ci conosce, e che più che diventare appassionati ci ha reso solamente più pigri. Anche nel giudizio. Anche in quello che desideriamo. Abbiamo aumentato a dismisura le nostre aspettative, anche a ragione: quante volte siamo rimasti delusi da un’opera non riuscita? Quante volte abbiamo avuto la sensazione di aver perso un paio d’ore davanti allo schermo? Quante volte siamo stati traditi dalle promesse che tanti decantavano? Così facendo, però, ci spostavamo sempre più verso un’estremità di quella linea di giudizio che non ammette scale di grigi.
Sguardi su un film minore
Da dove proviene un film minore? Se dovessimo ascoltare le parole di chi i film li realizza e li distribuisce, nessun film nasce minore. Ogni opera è frutto di un’urgenza (narrativa, personale oppure semplicemente economica) e prodotta con lo stesso amore. Eppure, qualcosa sembra essersi perso nella Pixar di questi ultimi anni. Colpa di uno studio che ha subito diversi cambiamenti al suo interno oppure le ragioni sono molteplici e riguardano anche la percezione del pubblico?
Dal 2020 i quattro film Pixar – tutti quelli che appartengono a questa cosiddetta “fase minore” dello studio – sono stati distribuiti direttamente su Disney+. A differenza, però, di altri titoli che – per varie ragioni – hanno beneficiato di un Accesso VIP (ovvero un sovrapprezzo sul prezzo dell’abbonamento alla piattaforma, di circa 20€) come Black Widow, Crudelia, Raya e l’ultimo drago, questi sono stati inseriti come prodotti Originals. In poche parole, come nuovo contenuto per tutti gli abbonati. O, per usare un termine non del tutto corretto ma efficace, gratis.
Quando si parla di visione al cinema come un’esperienza unica ed essenziale per la fruizione del film non s’intende solo per fattori legati alla qualità audio-visiva, ma anche e soprattutto legata alla soglia di attenzione del pubblico. È innegabile che il buio di una sala cinematografica, il prezzo del biglietto speso, l’impossibilità di fare altrimenti per un paio d’ore fa parte di una forma mentis che permette allo spettatore di prestare assoluta attenzione a ciò che sta vedendo. Lo stesso film, su uno schermo casalingo – per quanto di ottima qualità -, disponibile senza sovrapprezzo su una piattaforma streaming, visto comodamente sul divano, genera un’esperienza diversa, che può essere ricca anche di distrazioni. Lo sguardo dello spettatore è diverso perché lo è l’ambiente stesso intorno a lui.
E così alcuni film che nulla avrebbero da invidiare alla dimensione della sala cinematografica sembrano prodotti direct-to-video realizzati con meno cura, meno amore, meno urgenza. Quasi fossero di partenza figli minori, in attesa del vero e proprio evento del futuro.
Ritrovarsi
Onward, Soul, Luca e Red. A ben vedere questi quattro film, nonostante si percepisca la poetica Pixar presente al loro interno, sono opere molto più sperimentali rispetto al passato dello studio d’animazione. Lo si nota nel tratto del disegno e nel character design (più canonico nei primi due, più personale e legato allo stile dei registi nei secondi), ma anche nel focus tematico delle storie.
Onward è una storia di elaborazione del lutto attraverso contorni fantasy. Soul è un viaggio esistenziale e spirituale sul significato della vita. Luca un racconto di formazione velato di nostalgia sulla diversità. Infine Red, più che sul periodo dell’adolescenza e sulle mestruazioni, è anche la storia di un genitore che non accetta il passare del tempo.
Come in ogni film Pixar, questi quattro film, che hanno pagato dazio nel non poter essere visti sul grande schermo, hanno una duplice chiave di lettura, una destinata a un pubblico infantile, l’altra dedicata al pubblico adulto. A volte l’equilibrio sembra perdersi, dando vita a opere un po’ più sbilanciate (una delle critiche rivolte a Soul era quella di essere poco adatto per i bambini; viceversa, con Red, gli adulti si sentono fuori target), ma non è proprio questa comunione di storie a rendere la storia della Pixar così unica? Con un pizzico di malizia si potrebbe pensare che i film vengono considerati “minori” perché diversi da quello che ci si aspetta o da cui ci si era abituati. Il mondo fantasy di Onward, l’esistenzialismo di Soul, la leggerezza di Luca o lo stile anime di Red sono elementi destabilizzanti, che faticano a essere digeriti, forse proprio perché sperimentali, distanti dal canone prestabilito.
Meglio essere chiari: non stiamo dicendo che Red o qualsiasi altro film della Pixar debba essere riconosciuto per forza come un capolavoro o allo stesso livello di altri titoli che riteniamo più riusciti. I passi falsi e le opere meno riuscite hanno colpito qualsiasi artista e questi ultimi film non sono i primi e non saranno gli ultimi della (ci auguriamo ancora lunga) storia della Pixar.
Eppure, forse, c’è bisogno anche di riscoprire un piacere più primordiale della visione, allontanando quel manicheismo che non ammette la sufficienza ma solo la perfezione. Comprendere, anche, che non si vive di soli capolavori.
Come Mei, la protagonista di Red, anche il pubblico dovrebbe vedere sé stesso di fronte a uno specchio e notare in quell’immagine speculare le proprie imperfezioni. Per poi attraversare lo specchio con serenità, accettando un mondo di sfumature, più ricco, composto di diversità e varietà. Ritrovandosi.
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