Midsommar – Il villaggio dei Dannati è solo il secondo lungometraggio di Ari Aster, regista del cupo Hereditary, questa volta affronta sempre un horror psicologico, ma con una caratteristica totalmente parallela al primo film e panorama horror contemporaneo in generale, si tratta infatti di un film dove non cala mai il sole, tutto l’orrore e la scene considerabili disturbanti hanno luogo in pieno giorno in contrasto fra i paesaggi bucolici e colorati.
Midsommar si apre con alcune scene in America, dove avviene la parte drammatica della narrazione. Dani, interpretata da Florence Pugh, perde tutta la sua famiglia dopo che la sorella, in preda alla sofferenza causata dal suo disturbo mentali, uccide i genitori con il gas dell’auto per poi suicidarsi, ma poco prima aveva chiesto aiuto alla sorella che, pensando fosse un modo per attirare l’attenzione, ignora il messaggio questo le causerà un grande senso di colpa che peggiorerà il suo lutto insieme alla difficile relazione con Christian che sembra totalmente indifferente alla sofferenza della fidanzata, anzi, ne è infastidito. Il dolore di Dani in questa parte del film viene rispecchiato dai colori cupi e dalla claustrofobia del suo appartamento.
Successivamente Dani, Christian e i loro amici partiranno per la Svezia dove inizierà la liberazione emotiva della protagonista, infatti, questa parte del film si svolge principalmente all’aperto, in prati che sembrano immensi e soprattutto, dato che si trovano in Svezia durante il solstizio d’estate, non calerà mai il sole per tutto il restante tempo del film. Una delle paure più antiche dell’essere umano è proprio quella del buio, i cineasti di genere horror lo sanno bene, infatti arricchiscono le loro opere con scene in penombra, strane figure nascoste nel buio che spaventano lo spettatore per non sanno cosa potrebbe celarsi nell’oscurità. Ari Aster, invece, decide di mostrarci tutto, tutte le scene più cruente sono perfettamente illuminate dalla luce naturale.
Quest’opera potrebbe rientrare perfettamente nel sottogenere del folk horror, accade effettivamente tutto ciò che uno spettatore potrebbe richiedere da un film dell’orrore, c’è una misteriosa comune che lascia un senso d’ansia in quanto non subito capiamo cosa potrebbe accadere, ci sono morti violente come la celeberrima scena della rupe, l’aquila di sangue o il finale in cui vengono arse vive diverse persone. Il regista ci mostra tutto però attraverso gli occhi di Dani, lei in quella comune non ha paura e anche lo spettatore, per quanto si trovi davanti a delle scene grottesche e crude non si sente terrorizzato, questo perché il vero orrore in quest’opera si trova nella mente di Dani.
Come dicevamo, è un horror psicologico dove la parte horror si cela spesso all’interno di una metafora, come ad esempio la depressione in Babadook, questa volta la protagonista deve ritrovare se stessa dopo aver perso tutte le persone a lei care, la famiglia per la loro morte, ma anche il fidanzato che non riesce a lasciare, fino al finale del film, nonostante sia ormai una relazione disfunzionale. Il film è il risveglio emotivo di Dani che ormai ha già vissuto all’inizio dell’opera le cose che la spaventavano maggiormente e adesso si trova in una situazione dove il suo dolore viene compreso e accettato. Al contrario degli altri personaggi, infatti, vediamo come Dani sia l‘unica a indossare l’abito bianco tipico della comune, mentre gli altri continuano ad utilizzare i loro vestiti scuri, sottolineando il fatto di non essersi integrati nella comune ed essere anche l’elemento dal quale la protagonista cerca di liberarsi.
Un altro importante cambiamento che Midsommar ha dato al cinema horror contemporaneo è il suo linguaggio criptico, Ari Aster anche in Hereditary ha usato dei simboli per accompagnare lo spettatore nella visione, ma con Midsommar, e successivamente con l’onirico Beau ha paura, ha consolidato il suo marchio stilistico. Non è il primo regista certamente che utilizza un linguaggio fatto di simboli, il primo che ci verrà in mente sarà sicuramente David Lynch, ma in un panorama contemporaneo dove i film horror sono stati fortemente influenzati da opere come The Conjuring, quindi buie e arricchiti da jumpscare, Ari Aster di trasmettere il terrore attraverso un atmosfera che nonostante sia ben illuminata riesce a trasmettere ansia, grazie al “non detto” che si cela dietro l’analisi dei simboli e dei disegni che costellano il film, questo linguaggio ha influenzato e aperto la strada al grande pubblico anche a registi come Robert Eggers e molti altri.