Giovedì 27 aprile ha debuttato finalmente nelle nostre sale l’attesissimo Beau ha paura, terzo lungometraggio dietro la macchina da presa per Ari Aster e con protagonista un sempre intenso Joaquin Phoenix. Un film molto atteso perché non solo si discosta dall’horror puro che aveva contraddistinto le due pellicole precedenti del regista (Hereditary, Midsommar), ma soprattuttto perché si presenta al suo pubblico di riferimento come una vera e propria odissea cinematografica nella mente del protagonista della durata di quasi tre ore.
Un progetto quindi, che non poteva che generare attesa febbrile e moltissima curiosità. Noi abbiamo già visto l’inclassificabile psicodramma di Ari Aster e ne abbiamo parlato con vivacità e perplessità nella nostra recensione, e vogliamo sbrogliare la matassa dell’iper-stratificazione di significato del film con Phoenix con la nostra spiegazione del finale di Beau ha paura, con la consapevolezza che la nostra analisi sarà soltanto un piccolo tassello in un oceano di chiavi di lettura che nelle prossime settimane, mesi o addirittura anni verranno a galla.
Di cosa parla Beau ha paura?
Per un dramma psicologico così complesso e dagli svariati livelli di lettura ed interpretazione, è doveroso fare qualche passo indietro prima di arrivare al finale dell’opera terza di Ari Aster e capire da quale punto di origine parta l’avventura stravagante e straniante del nostro Beau Wasserman. Il personaggio interpretato da Phoenix è figlio di una famosa e ricca donna d’affari, Mona (Patti Lupone). Cresce senza un padre, che a detta della madre è morto durante un orgasmo quando Beau è stato concepito, una condizione medica ereditaria che lei sostiene sia stata trasmessa al figlio. Da adolescente, in crociera con la madre, Beau incontra e si innamora di una ragazza di nome Elaine; lì, i due si baciano e promettono di rimanere vergini fino a quando non si incontreranno di nuovo da adulti. Da grande, Beau è diventato un uomo estremamente ansioso e vive da solo in una città dominata dal crimine.
Il suo terapista (Stephen McKinley Henderson) gli prescrive un farmaco sperimentale per l’ansia, da assumere categoricamente insieme all’acqua. Beau deve prendere un volo per vedere la madre in occasione dell’anniversario della morte del padre, ma dopo aver passato la notte insonne non sente la sveglia; dopo aver fatto le valigie frettolosamente, scopre che le sue chiavi e il suo bagaglio sono stati rubati, e non solo; dopo pochissimo tempo riceve una strana ed inquietante telefonata da un corriere UPS che gli annuncia di aver trovato sua madre Mona uccisa dalla caduta improvvisa di un lampadario. Sarà l’inizio di un viaggio verso la casa materna lisergico ed assolutamente imprevedibile.
La linea sottile tra realtà ed immaginazione
Un viaggio che, come nelle migliori teorie narratologiche, prevede incontri con altri personaggi, scontri e chiavi di lettura sempre diverse, ma a quelle arriveremo a breve. Dopo essere rocambolescamente fuggito dal condominio all’interno del quartiere malfamato e pericoloso dove vive, Beau si risveglia semi-cosciente dopo un incidente automobilistico, per scoprire che è stato salvato dalla coppia gentile formata da Grace (Amy Ryan) e Roger (Nathan Lane). I due, genitori della turbolenta adolescente Toni (Kylie Rogers) hanno perso il figlio Nate come soldato al fronte a Caracas e dopo quel tragico evento hanno deciso di ospitare nella loro abitazione anche Jeeves (Denis Menochet), ex-soldato amico di Nate dal carattere problematico e psicotico. Grace e Roger promettono di portare Beau al funerale della madre, per poi però scoprire che il passaggio di cortesia viene continuamente rimandato per ragioni indipendenti dalla volontà del protagonista.
Beau riesce a fuggire dalla casa della coppia dopo che la figlia Toni si uccide ingoiando un intero barattolo di vernice nella camera di Nate; Grace incolpa Beau e quest’ultimo, braccato dal pazzo Jeeves, scappa dalla porta-finestra della coppia e si addentra nei boschi. Qui di notte, fa la conoscenza di una comunità di teatranti dal nome “Gli orfani della foresta”, dove assiste ad una messa in scena che, in alcuni punti, pare ricordargli parti della sua stessa vita, o quantomeno di una vita futura che non ha mai realizzato, con tanto di moglie e figli. Come se quello spettacolo sul palcoscenico rappresentasse per lui il più grande desiderio irrealizzato della sua vita, ma che non ha mai potuto esaudire a causa delle mille paure e fobie di cui ha sempre sofferto sin da bambino.
Un’odissea psicotica
L’idillio della comunità dei boschi viene meno quando un misterioso uomo avvicina Beau e gli rivela che suo padre è ancora vivo; un’informazione scioccante per il nostro protagonista, visto che la madre Mona gli aveva sempre detto che suo padre era morto nell’istante dopo l’orgasmo che lo aveva concepito; una malattia ereditaria che aveva colpito (a quanto pare) anche il nonno e il bisnonno di Beau. Prima di capire la vera identità dell’uomo misterioso, arriva Jeeves che fa esplodere il palcoscenico degli orfani della foresta, generando il panico; Beau fugge dalla scena di guerra ma sviene nel momento in cui va in corto circuito il monitor alla caviglia che gli aveva regalato Roger. Nel momento in cui Beau sviene (e accade molto spesso nel film), accadono solitamente due cose: la sua memoria va al passato, quando era adolescente e con sua madre Mona si trovava a bordo di una nave da crociera dove conosce Elaine, oppure ad un ricordo sbiadito dalle tinte oniriche, in cui il piccolo Beau si trova in una vasca da bagno e chiede alla madre dov’era suo padre.
In questo sogno/memoria, Mona urla a suo figlio di avergli già detto la verità, e che questa la si può solamente trovare salendo le scale della soffitta, dove sembra celarsi un mistero terrificante (a cui arriveremo a brevissimo). Dopo essere riuscito a rimediare un passaggio verso la cittadina di Wasserton dove vive la madre, Beau si rende conto di essere arrivato troppo tardi; il funerale è terminato, e la casa materna è diventata un vero e proprio mausoleo di fotografie della donna e dei successi della sua azienda farmaceutica (la MW), una auto-celebrazione che culmina con la bara aperta in cui giace un corpo femminile senza testa. Che sia veramente quello il cadavere della madre?
Chi è il padre misterioso di Beau?
Mente Beau è lì a chiedersi la verità, arriva Elaine (Parker Posey) a porgere gli omaggi alla defunta Mona; il nostro scopre in questo modo che l’amore della sua adolescenza lavorava per l’azienda della madre, tanto che le fa capire di non averla mai dimenticata da quel viaggio in crociera di tanti anni fa. Elaine porta Beau a letto e fa l’amore con lui, solo che non è il suo orgasmo a provocargli la tanto temuta morte di carattere ereditario, bensì è l’orgasmo femminile ad uccidere la donna, deceduta e letteralmente pietrificata dopo aver raggiunto il livello massimo di piacere fisico. Sconvolto dalla morte di Elaine, Beau fa però una scoperta ancor più scioccante: sua madre è viva e vegeta e ha guardato tutto l’amplesso del figlio con la sua dipendente.
Il nostro protagonista si confronta finalmente con la madre, venendo a sapere che la sua morte era tutta una messinscena (il corpo senza testa nella bara era quello di Martha, la balia di famiglia che aveva cresciuto Beau da bambino) per provare un’ultima volta se suo figlio era veramente affezionato o meno a lei. Arrabbiato e sconvolto, Beau chiede a Mona una volta per tutte la verità su suo padre, per finire ancora una volta imprigionato all’interno della soffitta protagonista di uno dei suoi ricordi più traumatici. Lì dentro, Beau scopre (in una sequenza che, più delle altre, non dovrebbe essere presa alla lettera) la presenza di un enorme fallo maschile parlante che afferma di essere suo padre. Era quella la verità, il genitore di Beau, in chiave puramente allegorica, non era altro che un organo maschile che anni prima aveva provocato l’orgasmo fatale e vivifico allo stesso tempo: da una parte il seme dell’uomo aveva dato vita a Beau, dall’altra aveva provocato la morte istantanea del papà del nostro.
Cosa succede nel finale di Beau ha paura?
Addentriamoci quindi nella spiegazione del finale di Beau ha paura. Dopo la terrificante scoperta, Beau si rende conto di essere stato controllato dalla madre per tutto quel tempo: le fotografie appese ai muri della casa celebravano i successi dell’azienda farmaceutica con copertine e ritagli di giornale in cui era quasi sempre protagonista il piccolo Beau (che fosse diventato una cavia per gli esperimenti farmaceutici della madre? Che le sue insicurezze e paure fossero nate da lì? La risposta a questa domanda non è fornita), mentre anche lo stesso psicologo che gli aveva prescritto la nuova medicina all’inizio del film lavorava in segreto per Mona, così come del resto la defunta Elaine. Se il motto della MW era (guarda caso) “Perfectly Safe”, ciò ci fa pensare che l’infanzia disfunzionale del protagonista interpretato da Phoenix abbia avuto origine nell’atteggiamento forse troppo iper-protettivo della madre Mona, che fin da piccolo aveva cercato di schermare il figlio da ogni pericolo che il mondo esterno poteva rappresentare. Crescendo in questo modo, Beau è diventato quindi un uomo di mezza età fobico e altamente psicotico, spaventato da ogni cosa.
Mona però rivela a suo figlio di non aver mai superato l’idea di aver cresciuto un figlio senza padre totalmente irriconoscente e privo di attaccamento affettivo verso di lei; nonostante la donna avesse cercato di essere presente per lui in ogni modo immaginabile, non aveva mai ricevuto in cambio l’amore che gli stava donando. Un climax genitore/figlio che aveva provocato nel tempo un gigantesco complesso di Edipo nel nostro protagonista, schiacciato per anni e anni dalla presenza ingombrante della madre nella sua vita, tanto da rimandare ogni volta era possibile un incontro con lei. Per questo motivo l’odissea lisergica che Beau compie per quasi tutta la durata del film potrebbe essere letta come un tentativo psicotico di non voler affrontare la sua paura più grande: il confronto con la mamma e l’assenza di una figura paterna.
Un’ipotesi di chiave di lettura
Quando Beau soffoca (involontariamente?) Mona e la lascia morire in casa senza respiro, fugge su una barchetta verso il lago della città di Wasserton, per poi scoprire però che il cielo notturno che lo sovrastava nella fuga era in realtà la cavea di un enorme anfiteatro popolato da migliaia di persone sotto l’arbitrio del suo avvocato (Richard Kind); qui l’uomo di legge, sotto gli occhi della stessa Mona, accusa formalmente Beau di tutte le sue mancanze affettive nei confronti della madre, condannando “la vittima” ad una lenta ed agonizzante morte subacquea: la barchetta a motore viene meno e Beau affoga, cadendo inavvertitamente in acqua. Una morte, quella del nostro, che pare enfatizzare la simbologia segreta dell’acqua nel corso di tutto il film e che racchiude, meglio di altri elementi allegorici, il significato più importante del film di Ari Aster.
Non è un caso difatti che il film inizi con la soggettiva di Beau nel momento del parto; dal liquido amniotico del grembo materno fino alla morte per via acquatica, tutta l’opera di Aster è attraversata dall’elemento dell’acqua: ad esempio, la medicina prescrittagli dallo psichiatra nelle prime scene della pellicola deve essere necessariamente ingollata assieme all’acqua, mentre il cognome Wasserman (e per estensione, la cittadina di Wasserton) è una costruzione sintattica che ha al suo interno il termine tedesco “wasser”, ovvero acqua. Come a voler sottolineare quanto il viaggio lisergico (reale, ma anche mentale) di Beau ha paura sia in realtà ascrivibile ad un complesso di Edipo difficile da eradicare dalla psiche del fragile protagonista, soggetto principale di un’odissea tra paure e desideri intimi dalla forma circolare: dall’acqua del liquido amniotico materno alla morte per annegamento, abbiamo assistito semplicemente alla vita di Beau Wasserman e a un film su quanto la figura materna possa influenzare la vita dei figli. Nel bene o nel male.