Pensare al contesto televisivo pre-streaming è assai complicato, specie se lo si rapporta a un presente ormai colmo di produzioni proiettate al mercato del futuro. I primi show ad alto budget, quelli che hanno cambiato il panorama televisivo nel primo decennio dei 2000, sembrano lontani anni luce, disgregati nel macrocosmo del piccolo schermo. Eppure, nonostante la poca risonanza rispetto ad altre produzioni (almeno al di fuori del contesto americano), alcuni di essi hanno avuto un impatto tale da poter facilmente adattare il proprio dialogo alla realtà contemporanea. Il caso di Mad Men è a dir poco emblematico in questo senso: la serie AMC creata da Matthew Weiner è stata il simbolo della transizione verso la serialità moderna, ma raramente ha goduto della stessa risonanza rispetto ad altri cult televisivi.
Non che si tratti di una produzione sottovalutata: lo showrunner, già forte dell’esperienza fra gli autori de I Soprano, ha trovato la formula perfetta per cambiare il modo di concepire il dramma televisivo. 7 stagioni, 16 Emmy, 5 Golden Globes: che la si conosca o meno, Mad Men ha lasciato un segno indelebile nella cultura pop, muovendo i primi passi in un campo fino ad allora esplorato soltanto da HBO per dimostrare il potenziale creativo delle serie tv. L’epopea dei pubblicitari della Madison Avenue degli anni ’60 si è affermata come il perfetto dramma esistenzialista, aprendo la strada a produzioni più chiacchierate come Breaking Bad e The Walking Dead. Una serie tv del 2007, talmente coraggiosa da stravolgere gli stereotipi, sfidare lo spettatore e trascinarlo in un viaggio indimenticabile tra apparenza e delirio.
Dalla Madison Avenue al cuore dell’America
I Mad Men, gli uomini di Madison Avenue, sono pubblicitari benestanti e affascinanti che nell’America degli anni ’60 trovano terreno fertile per coltivare il proprio ego a suon di vizi e tentazioni. Personalità onnipotenti, impenetrabili, talmente abili da aver imparato a trasformare l’apparenza in sostanza. L’intera premessa delle serie si colloca in un particolare limbo tra la ricostruzione storica del boom economico e l’attenta analisi di uomini traumatizzati dalla propria fragilità. I contrasti che fanno da motore della serie sono presenti persino nel titolo: i Mad Men non sono soltanto i “perfetti” pubblicitari della Madison Avenue, ma anche uomini sull’orlo della follia alla disperata ricerca di un equilibrio edonistico tra il sé interiore e quello esteriore.
Nella serie di Weiner l’unica, vera perfezione è quella formale. I personaggi, invece, sembrano condannati a incarnare (perfettamente) le contraddizioni e le ipocrisie dell’uomo moderno. Qui lo showrunner trova nello storytelling l’unico strumento per legare apparenza e sostanza, facendosi quasi avveniristico nel mostrare attraverso il suo protagonista un’epoca non troppo distante da un presente sempre più effimero in cui l’ossessiva ricerca del piacere si scontra con gli stigmi della società occidentale – consumismo e capitalismo, su tutti. A quasi vent’anni dalla sua uscita, Mad Men resta ancora l’opera che meglio di tutte ha saputo farsi specchio delle ambiguità di un paese estremamente abile a celare i propri drammi sotto un velo di illusioni e meraviglie.
La punta dell’Iceberg
In un racconto che vuole sfruttare la facciata per raccontare il dolore umano, non poteva esistere protagonista migliore del Don Draper di Jon Hamm: una maschera vivente, un’entità cangiante che coltiva stile e savoir faire per proteggersi dalle proprie ombre. Don rappresenta la versione ideale dell’uomo del suo tempo, condannato a bramare la perfezione senza mai raggiungerla: il protagonista incespica sulle proprie contraddizioni, terrorizzato dal dolore al punto da preferire la vuotezza all’oblio. Eppure, anche nella sua rincorsa da un piacere fugace all’altro, Don non può fare a meno di cercare un contatto reale. L’umanità è un concetto astratto, avvolto fra le spire di riferimenti e compromessi, ma in Mad Men trova una forma concreta che tutti possano comprendere attraverso il viaggio tribolato del suo antieroe.
Un percorso simbolico e di auto-affermazione che va oltre la semplice consapevolezza e rende Don Draper uno dei personaggi più importanti della storia della tv: l’essere perfetto, costruito come tale solamente per essere decostruito e distrutto, pezzo dopo pezzo, permettendo all’umanità di affermarsi sull’ideale. Un uomo che non vuole nulla di tutto ciò e che per questo affronta una vera odissea prima di accettare la realtà. Don tenta disperatamente di salvarsi dall’oblio rifugiandosi sotto la maschera del self made-man, un uomo solo che danza elegantemente in un mondo di gioie sfuggenti. Il protagonista di Mad Men, da figura predominante, diventa la vittima prediletta della società. Un uomo cristallizzato nel suo presente, la persona che tutti vorrebbero essere ma che nessuno può essere davvero: un’icona.
“Diventare bianco”
Weiner lo ha detto più volte: quella di Don è una lotta contro il cambiamento, tra la paura di essere “solo” Don e il desiderio di “diventare bianco”, cioè di incarnare perfettamente l’uomo americano dell’epoca. Nel disperato tentativo di ergersi come eroe dell’assimilazione, Draper si rivela l’esteta per antonomasia: l’individuo immerso nel piacere del qui e dell’ora, perpetuamente in fuga dal passato (che rinnega) e distaccato dal futuro (in cui non crede). Il riferimento del Don di Mad Men è chiarissimo: quel Don Giovanni che passa da un piacere all’altro senza mai realizzarsi, narratore inaffidabile della sua stessa storia, corpo errante che rifugge se stesso per paura di perdersi nella propria disperazione.
Allo stesso modo, la pubblicità si fa metafora perfetta del conflitto e per questo si pone al centro dell’opera: nell’ottica puramente estetica, l’advertising è un’arte di facciata che garantisce riflessi della realtà instillando aspirazioni effimere. Gli uomini della Madison Avenue non vendono prodotti, ma bisogni costruiti ad arte sulla curiosità di chi osserva. Così Mad Men vede la pubblicità come mezzo che mostra solo riflessi di realtà utili a costruire l’immagine perfetta di ciò che vorresti essere – rappresentando, di conseguenza, l’intero stile narrativo dell’opera. In questo contesto complesso, Don finisce per agire esattamente come un consumatore delle proprie stesse ideazioni, immerso tra bisogni e desideri ancora da decifrare.
“Is that all there is?”
La serie esistenzialista di Matthew Weiner è riuscita a bucare lo schermo attraverso l’esperienza, vissuta e percepita, di una vera e propria epifania dell’accettazione. Nel senso assoluto della serie, la consapevolezza è l’unica via per andare oltre e “rinascere” davvero, fuggendo dall’auto-determinismo. Morte al vecchio, onore al nuovo che sboccia oltre i riflessi. Dopo una miriade di storie, pensieri e contrasti, potrebbe venire naturale chiedersi se quella di Don sia veramente la fine del viaggio. Se “Is that all there is?” – è davvero tutto qui, come accenna la celebre canzone di Peggy Lee che lo showrunner inserisce con perfetto tempismo sul finale.
Rivedendo lo show con consapevolezza, anche a distanza di anni, quell’ultima sequenza simbolica acquisisce sempre più valore. Bastano pochi particolari a descrivere quegli istanti: sono le emozioni che sfidano il cinismo, un’accettazione che libera dalle maschere e stimola per la prima volta prospettive autentiche. Non è necessario raccontare oltre per sapere che fine faranno i pazzi uomini e donne della Madison Avenue, ma una cosa è certa: nel sorriso sereno di Don Draper c’è tutto, dalla realizzazione alla libertà. Oltre la danza delle anime dannate, c’è un’illuminazione che crea meraviglie.
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