Il 6 giugno in sala arriva La stanza degli omicidi, film diretto da Nicol Paone e ambientato in un mondo dell’arte sui generis, dove lo snobismo intellettuale che può accompagnare questo tipo di ambiente si scontra con la praticità del mondo criminale, dove non contano gli intenti ma solo i risultati. Protagonista della vicenda è la gallerista Patrice (Uma Thurman) che, per cercare di salvare la propria galleria dalla bancarotta e dall’umiliazione di essere derisa dai suoi avversari, accetta di riciclare denaro sporco per un criminale (Samuel L. Jackson). L’uomo porterà a Patrice dei quadri e la donna li dovrà vendere come se fossero pezzi unici, in modo da ripulire il denaro e far apparire tutto estremamente legale. A realizzare le opere è Reggia (Joe Manganiello), un assassino di professione le cui opere cominciano a far gola a molti collezionisti. Senza voler andare più a fondo nella trama di questo film delizioso e spassoso, La stanza degli omicidi è un’operazione senza dubbio interessante anche solo per il suo mettere in scena un paradosso insito nell’arte: come facciamo a capire cosa sia arte e cosa no? Soprattutto nell’ambito dell’arte contemporanea, quali sono gli standard per comprendere se quello che abbiamo davanti è un’opera d’arte?
Il mito del collezionista ingenuo e raggirabile
L’arte classica, se vogliamo, è qualcosa che risulta di facile fruizione. Quando guardiamo un quadro o una scultura, che sia di Michelangelo o di Raffaello, di Canova o del Bernini, veniamo subito colpiti dalla maestosità dell’impresa, la bellezza delle linee, l’impossibile sensazione di leggerezza intrappolata in una lastra di marmo. Vediamo quelle opere e, anche noi che siamo degli “ignoranti” in materia, ne rimaniamo colpiti. L’arte è lì, è davanti a noi. La possiamo vedere, ne riconosciamo gli stilemi. Con l’arte moderna e contemporanea, però, questa immediatezza viene meno. Non c’è più l’epicità della pennellata, l’afflato quasi mitologico con cui venivano realizzate le opere prima del Novecento. E una delle frasi che si ripetono più spesso è “quello avrebbe potuto farlo anche un bambino.” In uno scenario come questo, semplificato e ridotto davvero all’osso, emerge con più prepotenza il falso mito dell’immaginario collettivo secondo cui l’arte moderna non è altro che un inganno per i grandi collezionisti, persone piene di soldi che forse devono compensare una certa insicurezza con l’acquisto di quadri che magari non capiscono nemmeno. La stanza degli omicidi gioca proprio su questo concetto: su come l’arte non sia altro che questione di saperla vendere. Un aspetto che era già stato sottolineato, ad esempio, in Quasi Amici, quando il personaggio interpretato da François Cluzet vendeva uno “scherzo” del personaggio di Omar Sy come se fosse una grande opera. Da questo punto di vista è facile ritrovare un certo paradosso dell’arte: percepita come qualcosa di alto, di intimo e a tratti spirituale, esiste solo perché può venduta e mercificata, anche quando magari a noi sembra che non ci sia niente da dire.
Il ruolo del critico d’arte
In Big Eyes Tim Burton inserisce nel suo racconto biografico di Margaret Keane la figura di un intellettuale critico d’arte, interpretato magistralmente da Terence Stamp, che deride e umilia l’arte di Walter e Margaret, che dichiara che la loro arte funzioni solo perché qualcuno ha deciso che andava di moda. Ma, nella sua mente, moda e arte non possono andare di pari passo, perché significa mercificare le opere d’arte, svenderle e svestirle del loro compito di raccontare qualcosa. E questo conduce senz’altro a un altro paradosso. Chi fa arte lo fa per vivere di ciò che crea, perciò deve sperare che i quadri diventino famosi, che diventino popolari e si vendano. Allo stesso tempo, però, come avviene anche in qualsiasi altro ambito artistico, che sia il cinema o la letteratura, quando qualcosa diventa mainstream per gli intellettuali diventa quasi automaticamente spazzatura, qualcosa che non vale nemmeno il loro tempo. Ne La stanza degli omicidi vengono messi in scena collezionisti sciocchi che si fanno raggirare come bambini che credono ancora a Babbo Natale e anche critici d’arte che si lasciano irretire da una rete di racconti e misteri che puntano più a far parlare dell’artista che dell’opera in sé. Il personaggio del critico, ne La stanza degli omicidi, viene in un primo momento equiparato a tutti gli altri ingenui che sborsano grandi cifre per comprare qualcosa che, a un primo sguardo, avevano definito “brutto.” Tuttavia la pellicola prende una piega inaspettata quando le opere di Reggie cominciano a “contenere” qualcosa, ad essere qualcosa e non solo uno scarabocchio fatto a caso solo per riciclare denaro sporco.
Il critico d’arte, alla fine, aveva ragione. Sebbene siamo abituati a pensare ai critici come a signori imbolsiti chiusi nella propria arroganza, incapaci di aprirsi al nuovo, un vero critico non dovrebbe mai essere una persona che si trincera dietro i suoi preconcetti e le sue conoscenze. Non è solo una persona che conosce l’arte del passato, ma anche qualcuno che sa aprirsi al nuovo, che sa raccontare ciò che è sperimentale e rivoluzionario, che non si chiude a riccio appena qualcosa di inaspettato o fuori dalla sua comfort zone fa capolino all’orizzonte. E anche in questo senso La stanza degli omicidi funziona, perché sembra voler spalleggiare con lo spettatore quando deride l’arte moderna e l’ingenuità degli appassionati, ma quando si arriva al clou, il film prende le distanze da questa semplificazione e dimostra come l’arte, così come qualsiasi altro ambito, funziona quando è “fatta” da qualcuno che sa fare il proprio mestiere.
L’arte e il grande pubblico: un problema di comunicazione
Ha fatto molto scalpore l’artista Salvatore Garau che ha offerto al proprio pubblico un’opera letteralmente invisibile che è stata venduta per 18.000 dollari. Una scultura fatta di aria e nient’altro, che dava al compratore il compito di usare la propria creatività per scolpire con la fantasia. Si tratta di una forma d’arte concettuale, che fa della sua natura astratta un valore aggiunto. Valore che, però, non riesce a comunicare con chi non studia arte o non è un grande appassionato. Il “grande pubblico” è estraneo a questo tipo d’arte, non ne afferra né il meccanismo né il senso e percepire il tutto come se fosse un grande scherzo, un’allucinazione di massa.
Insomma, chi pagherebbe 18.000 dollari per non avere nulla? Il paradosso, forse, sta nel fatto che noi guardiamo all’arte moderna e contemporanea, con le sue commistioni di materiali e generi, come se dovessimo avere a che fare con l’arte classica. Se prima l’arte inseguiva l’epicità, la maestosità e, forse, l’impossibile, l’arte moderna ha un altro scopo. È sperimentale, certo. Ma la sperimentazione punta a farci fare a pugni con noi stessi, a farci vedere qualcosa che non vogliamo guardare. È la rivoluzione, tanto per chi la fa quanto, presumibilmente, per chi la riceve. L’arte, oggi, racconta la fallacia, la corruzione, un mondo sull’orlo del baratro e ci costringe a guardarci dentro anche come fruitori: perché una forma d’arte ci piace? Perché un’opera ci emoziona? Quali sentimenti cerchiamo quando alziamo gli occhi su una tela, o una scultura? Sebbene quando si parli d’arte – di qualsiasi forma d’arte – ci si affanni sempre a rincorrere la tanto decantata oggettività, un’opera che è espressione di un essere umano non può mai non essere soggettiva.
Una cosa che è stata mostrata anche nel film The Idea of You, con Anne Hathaway. L’arte non può essere oggettiva, perché viene realizzata con il percorso intimo e personale di chi la crea. Ed esiste solo quando viene percepita dall’occhio di chi la deve comprare o che la deve vendere, che ha ugualmente un percorso e un trascorso. E forse il maggior paradosso legato al mondo dell’arte sta proprio qui: il pubblico cerca le rassicurazioni di canoni e standard, di paletti che la rendano comprensibile a un primo sguardo. Ma il tempo della rassicurazione è finita ed è emblematico che, in La stanza degli omicidi, la grande arte venga riportata alla vita grazie a un uomo le cui mani grondano di sangue.
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