Pochi registi sono stati così importanti e, allo stesso tempo, così sfortunati come George A. Romero. Inventore del moderno zombie cinematografico, fautore di una new wave dell’horror di matrice sociale e politica, il regista americano, tuttavia, è anche stato autore di una filmografia davvero problematica. Costantemente – salvo rari casi – in conflitto con le case di produzione e distribuzioni, solito a dover concludere le proprie opere con budget più ridotti del previsto, Romero sembra quasi possedere una quantità maggiore di film quasi invisibili e perduti rispetto a quella che comunemente si conosce.
Soprattutto in Italia, al di là dei titoli più celebri appartenenti alla sua saga più celebre come La notte dei morti viventi o Zombi (versione rimontata da Dario Argento dell’originale Dawn of the dead), sono mancati veri e propri pezzi della sua filmografia. Almeno fino ad oggi.
Con un’importantissima operazione di recupero, Midnight Factory, che in questi ultimi anni ha rivoluzionato il mercato home video nostrano attraverso un piano editoriale dedicato al cinema horror prestando parecchia attenzione alla qualità dell’offerta, ha da poco pubblicato un cofanetto (sia in DVD che in Blu-ray) di lusso dedicato a uno dei periodi artistici più sfortunati di Romero. Si tratta di quei quattro film realizzati a cavallo tra il successo de La notte dei morti viventi e il suo sequel spirituale, Zombi.
Quattro film che, fino a questo momento, non avevano trovato una reale distribuzione italiana (con l’eccezione di un altro cult, meno celebre degli zombie, come La città verrà distrutta all’alba), rendendo di fatto questo box set un vero e proprio gioiello per i cinefili.
Non usiamo il termine “gioiello” a caso, perché rivedere queste pellicole opportunamente restaurate sul nostro schermo domestico equivale alla scoperta di un tesoro rimasto nascosto troppo a lungo, a cui abbiamo tolto la polvere del tempo, e che ora si svela in tutta la sua lucentezza. Perché tra sperimentazioni e prodromi di quello che verrà, questa fase della carriera del regista nasconde tutta la sua poetica, così unica e irreplicabile. A partire da una semplice commedia romantica sino ad arrivare a un’opera realizzata sotto commissione che, fino a qualche anno fa, era considerata perduta per sempre. Scenderemo nel dettaglio nel parlare dei film di George A. Romero contenuti in questo incredibile cofanetto targato Midnight Factory, un box che non solo celebra il regista, ma anche l’importanza della riscoperta nel cinema.
There’s Always Vanilla
Non era mai arrivato in Italia There’s Always Vanilla, secondo film diretto da George A. Romero e unica commedia romantica della sua carriera. A dire il vero, persino in America, il film venne poco considerato, sia genericamente che dallo stesso regista, poco felice del risultato finale. Negli anni Ottanta, infatti, il film non fu supportato da un’uscita in VHS e venne considerato irreperibile per lungo tempo.
Il film racconta la storia di un giovanotto nullafacente, intento a gustarsi la bella vita, di nome Chris che conosce e s’innamora perdutamente una giovane attrice di nome Lynn. Tra i due nasce subito una piacevole simpatia che sfocerà nella volontà di sposarsi e legarsi definitivamente. Ma il carattere libero e superficiale di Chris, incapace di rinchiudersi in un lavoro sicuro e di appartenere a una routine voluta dalla società metterà in crisi il rapporto.
There’s Always Vanilla nacque come cortometraggio di trenta minuti, come uno showreel per l’attore protagonista Raymond Laine, per poi venire esteso nella forma di lungometraggio a distanza di tempo. Proprio questa scelta non convinse mai del tutto Romero, qui solo in veste di regista, che lascia il ruolo di sceneggiatore al suo socio d’affari Rudy Ricci. Proprio la sceneggiatura non riesce a emergere, dando vita a una storia abbastanza semplice e non del tutto coesa. In particolar modo i dialoghi tradiscono un po’ di ingenuità e inesperienza, nonostante si riesca facilmente a entrare nello stile del racconto e giustificarne i difetti.
Ma è la regia di Romero a fare la differenza. There’s Always Vanilla immerge lo spettatore negli anni Sessanta, tra musica, colori e controcultura, dando vita a un’esperienza visiva a tratti lisergica, dove lo stile di regia si fa libero, ispirandosi chiaramente alle influenze europee di quegli anni (la Nouvelle Vague francese in primis). Soprattutto, nonostante una certa povertà degli ambienti e della messa in scena (scelta pressoché obbligata visto il basso budget disponibile), sono le tematiche che costruiscono un film che si fa voler bene. Indugiando sulla componente sentimentale, il giovane Romero, all’epoca 31enne, riesce a rappresentare sullo schermo un’esplorazione della sessualità, in maniera così candida, che spoglia l’opera di ogni effetto pruriginoso (avverrà la stessa cosa nel film successivo di cui parleremo tra poco) e, anzi, portando sullo schermo un personaggio femminile forte e intraprendente.
Gli appassionati del genere di cinema più conosciuto del regista si chiederanno per quale motivo interessarsi a questa commedia all’apparenza così distante dalla poetica del nostro. Una scena in particolare colpisce lo spettatore e cambia il tono del film all’improvviso. Lynn prenderà una decisione importante per sé stessa, dando vita a una sequenza davvero inquietante, che sottolinea la mano del padre dei morti viventi dietro la macchina da presa.
La stagione della strega
Il terzo film di George A. Romero è anche uno dei suoi più sottovalutati e sfortunati. In italiano è conosciuto con il titolo La Stagione della Strega, dato in una distribuzione successiva al successo di Zombi, ma in originale il titolo scelto era Jack’s Wife, La moglie di Jack. È proprio questa semplice definizione che descrive nel migliore dei modi la protagonista del film Joan, una donna di mezza età che si ritrova in un matrimonio infelice, succube di un marito violento e disinteressato. La sua rinascita come donna avverrà grazie alla scoperta dell’occulto, legando ancora una volta, in maniera quasi tradizionale ma ben analizzata attraverso un occhio analitico moderno, la dimensione magica delle streghe a un coraggioso ritratto di emancipazione e indipendenza.
Ancora una volta, dopo There’s Always Vanilla, Romero sembra evolvere il proprio stile, trovando una propria firma definibile. Lo si vede nella sequenza iniziale, appartenente al mondo dei sogni, dove le inquadrature sghembe e grandangolari di Romero donano al film un impatto immediatamente riconoscibile e straniante. Con uno stile in costante evoluzione (anche se ancora una volta il regista dovrà barcamenarsi con un budget risicato), La stagione della strega nasconde, nel 1973, uno sguardo contemporaneo. È un film moderno e avanti nei tempi, che accompagna lentamente lo spettatore dall’incubo di un mondo paternale, dopo la donna può essere solo “moglie”, al risveglio (della realtà e di sé stessi) di una natura libera e fiera. Ben diversa da come i distributori vedevano il film, fautori di una vera e propria rivoluzione ai danni dell’opera stessa (e non è un caso che lo stesso Romero per anni ha desiderato girarne un remake, sogno mai realizzato).
Il titolo originale Jack’s Wife venne cambiato presto in Hungry Wives, per seguire la moda dei film sexploitation del periodo. Ma il film di Romero non era questo: il suo era un film che non avrebbe sfigurato nella poetica di John Cassavetes e Ingmar Bergman, attento all’universo femminile e disinteressato all’erotismo (per quanto nel film siano presenti alcune nudità). Basterebbe solo osservare come l’occhio della macchina da presa si posi sui corpi per capire come La stagione della strega rifugga da ogni tipo di catalogazione. Non un dramma, non un film erotico e nemmeno a conti fatti un horror vero e proprio. L’occulto presente al suo interno è solo motore di una presa di coscienza che vede la donna separarsi dal predominio maschile e, per questo, spaventosa. Come una strega. Fiera di esserlo.
La città verrà distrutta all’alba
Tra i film presenti all’interno del cofanetto, La città verrà distrutta all’alba è forse il titolo più romeriano del lotto. Si tratta del film più conosciuto tra i quattro, il più reperibile e che funge quasi da “nuova opera prima” del regista. La storia è ben conosciuta: alcuni cittadini di un paesino della Pennsylvania iniziano a comportarsi in modo strano, lasciando sfogare una rabbia repressa e improvvisa. La città viene subito messa in quarantena e sotto la legge marziale, in attesa di capire il motivo dietro questi comportamenti. Presto si viene a sapere che la causa di tutto questo è la fuga di un virus artificiale di nome Trixie che, una volta uscito dai confini imposti dalla quarantena, potrebbe causare la fine dell’umanità. Il film si divide in due storyline: da una parte seguiremo la lotta alla sopravvivenza di una manciata di sopravvissuti in fuga; dall’altra Romero – come sua tradizione – indugia sulle operazioni militari e burocratiche, mettendo in mostra l’inefficienza e l’inadeguatezza del sistema americano, capace di nascondere la verità ai propri connazionali.
Dallo stesso regista considerato un nuovo inizio per la sua carriera, dopo le parentesi più autoriali e meno legate al genere che l’ha reso famoso, La città verrà distrutta all’alba nasconde tutti gli elementi che hanno poi caratterizzato la poetica di Romero e che troveranno maggior equilibrio da Zombi in poi. Per la prima volta senza ricoprire il ruolo di direttore della fotografia, Romero ha modo di concentrarsi completamente sulla regia dando vita a un’opera ben diversa dalle precedenti. Ed è interessante notare come, con un budget più sostanzioso rispetto alla media (ma comunque tagliato dalla produzione in corso d’opera), il film si distanzi dai ritmi distesi e lisergici di There’s Always Vanilla e La stagione della strega, per farsi più nervrotico e movimentato.
Iniziando quasi in medias res La città verrà distrutta all’alba vuole inchiodare lo spettatore alla poltrona, non lasciargli spazio di respiro, portarlo a vivere un’esperienza composta di tensione, irrazionalità, paura e incapacità a gestire la situazione. Tutto sembra sfuggire di mano, nonostante gli sforzi, più per colpa dell’uomo stesso che del virus. Sono passati quasi cinquant’anni dalla prima (sfortunata, il film fu un flop al botteghino) visione, e tuttavia il film sembra raccontare quasi con piglio da documentario una situazione che abbiamo vissuto sulla nostra pelle in tempi recenti. È cinema della contemporaneità o d’avanguardia? Il risultato non cambia. Non servono mostri o violenza esplicita sullo schermo per rendere il genere horror -anche se in questo caso, ancora una volta, si tratta di un termine riduttivo e semplicistico- il più puro e il più viscerale possibile, il più attento alla realtà.
The Amusement Park
Il vero Sacro Graal di George A. Romero, il tesoro di cui tutti parlavano ma nessuno aveva visto. Dei quattro film che abbiamo affrontato, The Amusement Park è senza dubbio il recupero più importante, il più inaspettato e il più prezioso. E pure il più inquietante e spaventoso di tutti.
Il film dura poco più di 50 minuti ed era stato realizzato su commissione (l’unico da parte di Romero, che infatti – per coerenza – non lo considerava così tanto importante all’interno della sua filmografia) da parte della Società Luterana, che voleva un film di sensibilizzazione contro l’ageismo. Il parco di divertimenti diventa una metafora del mondo, dove l’anziano si ritrova spaesato e dimenticato. Un tema importante, rappresentato con una metafora di forte impatto. Come se non bastasse, la libertà data a Romero (e che poi si ritorcerà contro di lui come un boomerang, visto che il film verrà nascosto a lungo) dà possibilità al regista di dare vita a un’opera che più si avvicina alla dimensione orrorifica.
“Voglio che tu senta il problema“: una battuta che descrive perfettamente l’intenzione di Romero di portare lo spettatore non solo ad empatizzare con il protagonista, ma anche a specchiarsi all’interno della narrazione. È giusto domandarci cosa rende il genere horror così spaventoso e perché ne siamo così affascinati. Forse ciò che fa davvero paura non sono le creature aliene o i serial killer di natura fantastica, ma ciò che possiamo diventare. The Amusement Park destabilizza, perché mette in scena il mostro della vecchiaia, di cui tutti noi, prima o poi, saremo vittime. E non ci rende vittime in quanto anziani, ma in base a come la società si comporterà con noi. Il mostro è lo scorrere del tempo o la società che ci cresce e poi ci abbandona? Un film davvero cattivo, che non si fa problemi a puntare il dito con ferocia nei confronti della società americana, rea di non aiutare le persone anziani e, anzi, addirittura farle sentire inutili.
L’uomo nel parco dei divertimenti è quindi il nostro riflesso separato dal tempo. Una conclusione forse troppo forte persino per i committenti dell’opera. Titolo leggendario, fu poi riscoperto, quasi per caso, grazie a una retrospettiva durante il Festival del cinema di Torino. Solo nel 2019 la pellicola, molto usurata, fu oggetto di ritrovamento e restauro, costruendone finalmente una copia digitale ad alta qualità, sempre secondo le possibilità data dai materiali di partenza. Tanto basta, per aver davvero vinto il tempo e aver dato nuova giovinezza a un regista che quello stesso tempo l’aveva anticipato.
Il cofanetto Midnight Factory
Perché un cofanetto come quello pubblicato da Midnight Factory, in edizione limitata a sole 1000 copie, disponibile esclusivamente sul loro Fan Factory Shop, è da considerarsi un evento?
La visione casalinga dei film ormai sta cambiando non solo la nostra fruizione del cinema, ma sta costruendo forse in maniera diversa o complementare rispetto a quella canonica una nuova figura di cinefilo. In un mondo sempre più liquido e digitale, la presenza di un box di 4 dischi, completo di cartoline, libretto e ore di extra, racchiuso in un comodo ed elegante cofanetto, sembra voler porre l’accento sull’importanza della materia e del passato.
Coerente con l’operazione di recupero e riscoperta, si ha la sensazione di aver trovato una reliquia finalmente liberata dalla polvere. Film considerati perduti che riacquistano valore proprio grazie alla loro presenza materica, fisica. Non l’acqua che scorre e si perde di nuovo lungo il percorso, ma una roccia che rimane. Non una storia di Instagram che scompare dopo 24 ore, ma una fotografia su pellicola che permane e che può vincere la prova del tempo quanto più viene curata. La dimostrazione dell’amore per il cinema.
Che tutto questo avvenga in un mercato home video non troppo ben considerato, piccolo e problematico come quello italiano, acquista ancora di più le dinamiche di un miracolo.