«Ci sei mai stata?»
«Non c’erano strade per Shangri-La dalla nostra parte di Belfast»
Nella risposta data al piccolo Buddy da sua nonna, ogni sillaba è pervasa di malinconia, eppure non c’è amarezza nella voce di Judi Dench; piuttosto, la serena rassegnazione di chi è giunto a patti con le fortune e i limiti della propria esistenza. È un sentimento forse incomprensibile per Buddy, ma come potrebbe essere altrimenti? Lui, di quell’esistenza, non ha vissuto ancora neppure un decennio, e ogni novità viene accolta con lo sguardo attonito e luminoso di un bambino affamato di meraviglia.
Aprendo la nostra recensione di Belfast, può essere utile rilevare che il nuovo film di Kenneth Branagh è filtrato interamente dalla prospettiva di Buddy: è un presupposto essenziale a una lettura critica, soprattutto laddove si volessero rimproverare a Branagh presunte ingenuità o un approccio troppo edulcorato rispetto al contesto storico.
Belfast
Genere: Drammatico
Durata: 97 minuti
Uscita: 24 febbraio 2022 (Cinema)
Cast: Jude Hill, Jamie Dornan, Judi Dench
L’Irlanda all’epoca dei Troubles
Il contesto in questione, per l’appunto, è l’Irlanda del Nord del 1969, all’alba dei Troubles: quella frazione dell’isola che si avviava a entrare nella fase più sanguinosa e cruenta del confitto nord-irlandese, anticipato dalle violenze fra gli unionisti dell’Ulster e la minoranza cattolica, esplose nell’agosto di quell’anno. Dopo il prologo con la panoramica sulla Belfast odierna, accompagnato dalla canzone Down to Joy di Van Morrison, la prima scena del film ci trasporta da subito nel cuore degli scontri: dallo scenario idilliaco della strada di un quartiere popolare, fra passanti sorridenti, bambini che giocano e il giovanissimo protagonista armato come un eroe shakespeariano, il caos irrompe all’improvviso sotto forma di una massa oscura e minacciosa. Non c’è un autentico realismo in un incipit del genere; al contrario, lo slow-motion ci segnala a chiare lettere che quanto stiamo vedendo è qualcosa di ‘riscritto’ (anzi, di rivissuto), ma il punto è proprio questo: Belfast è un racconto tenero, sognante, ammantato di limpida semplicità, come può e deve esserlo il racconto di un bambino impegnato ad attraversare il periodo più felice della propria vita.
Ritratto dell’artista da giovane
Rientrano in quest’ottica le scelte, drammaturgiche ma ancor più di messa in scena, dell’ultrasessantenne regista e sceneggiatore Kenneth Branagh, qui alle prese con il film più schiettamente autobiografico della sua carriera: il conflitto nord-irlandese, del tutto privo di riferimenti specifici al di là di una generica tensione religiosa, rappresenta un’emblematica dicotomia fra armonia e violenza. Lo scintillante bianco e nero di Haris Zambarloukos, le frequenti inquadrature dal basso e il corredo di brani del repertorio di Van Morrison contribuiscono a caratterizzare una visione che non punta all’immersività naturalistica dell’Alfonso Cuarón di Roma, ma a un’empatia più immediata e d’effetto, anche se magari meno profonda. Ecco dunque che, tolto il prologo, le uniche apparizioni del colore appartengono al regno della “finzione nella finzione”: gli spezzoni di Raquel Welch in costumi succinti in Un milione di anni fa e dell’automobile che spicca il volo in Citty Citty Bang Bang, davanti agli occhi sbarrati di Buddy, e un allestimento teatrale del Canto di Natale di Charles Dickens, che si riflette sulle lenti degli occhiali della nonna.
La famiglia di Buddy
Il cinema di Kenneth Branagh, del resto, è stato contraddistinto fin dagli esordi dalla ricerca di un intrattenimento ‘alto’, ma in grado di abbracciare ogni tipo di pubblico: che si trattasse delle trasposizioni da William Shakespeare, di lavori su commissione e marcatamente commerciali oppure di progetti più personali. In Belfast, ad oggi il suo film più elogiato in termini di critica e di riconoscimenti (sette nomination agli Oscar, il Golden Globe per la miglior sceneggiatura e la vittoria del Festival di Toronto 2021), tale ricerca raggiunge un equilibrio ammirevole, anche grazie all’apporto di un cast quanto mai funzionale: l’esordiente Jude Hill è irresistibile nella sua radiosa espressività; Jamie Dornan mette la propria fotogenia al servizio di un personaggio di padre dai connotati quasi romanzeschi (con tanto di trascinante esibizione canora nel prefinale); Caitríona Balfe offre un perfetto connubio materno fra amorevolezza e rigore; Ciarán Hinds conferisce uno spontaneo carisma a questo nonno che si presta da confidente alle pene amorose del nipote; mentre alla veterana Judi Dench è affidato in chiusura un silenzioso, struggente primo piano, da annoverare fra i più begli explicit visti al cinema quest’anno.
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Conclusioni
Ispirandosi alla propria infanzia nell’Irlanda del Nord, in un’atmosfera sospesa fra angoscia e spensieratezza, Kenneth Branagh firma un memoriale che è al contempo una dichiarazione d’amore per la sua terra d’origine e per una famiglia dipinta con tutto l’affetto possibile. Ne risulta un film tanto lineare nelle sue scelte narrative ed estetiche, quanto efficace nel descrivere il senso di appartenenza (e di sradicamento) di chi guarda al passato non come a una terra straniera, ma come al porto sicuro in cui ritrovare una parte di se stesso.
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Voto ScreenWorld