Tra rinvii e problematiche di varia natura, ci sono voluti quasi dieci anni per rivedere George Miller tornare nelle Wastelands del suo Mad Max. Fury Road ha lasciato un segno indelebile nella storia recente del cinema, rielevando Miller al rango di maestro per una nuova schiera di seguaci del suo inferno cromato: la terra rossa dell’outback post-apocalittico ha spinto il regista australiano a re-immaginare la sua creatura, ritracciandone i confini e le simbologie per approcciarsi con maggior forza al nuovo millennio. E per un mondo la cui voce ribelle si fa sempre più femminile, era inevitabile che un personaggio come Furiosa diventasse icona del moderno. Charlize Theron prima, Anya Taylor-Joy (e non solo) nella pellicola ora al cinema, racchiudono nelle loro interpretazioni e nel loro status uno spirito indomabile.
Miller è un autore estremamente attento: scruta il mondo dietro i suoi occhiali da sole e il suo sorriso, ma non ha mai nascosto un certo grado di pessimismo nei confronti dell’umanità – non dimentichiamo che Mad Max nacque come spunto autoriale, tra la denuncia per le vittime della strada e l’orrore per la bramosia degli uomini. Con la maturità, questo aspetto si è fatto ben più sottile, mascherato ad arte tra la polvere, i colori ultra-saturi e il rombo dei motori, ma non certo meno impattante. Furiosa, proprio in questo senso, si colloca come ulteriore passo in avanti dal punto di vista creativo: Miller ragiona per sottrazione, scremando la sceneggiatura come suo solito, ma questa volta la farcisce di dettagli e particolari attraverso la storia di una vita intera.
Un’esperienza meno folgorante rispetto al suo predecessore, forse, ma qualsiasi paragone si ferma all’aspetto tecnico o alla resa di alcune scelte in sceneggiatura. Per il resto, Furiosa è un’opera tanto imponente da meritarsi la propria autonomia (e la propria analisi).
Tornare all’origine
Potrebbe sembrare folle, ma il distacco da Fury Road appare netto già dalle prime battute: Furiosa non ha fretta di trascinarci verso l’orrore, anzi attende e cova qualcosa di grande nell’attesa di esplodere in tutto il suo furore. Il percorso dell’eroina, dalla sua infanzia alla sua maturità, è costellato di istanti emblematici, avvinghiati al personaggio come sanguisughe e difficili da debellare. Il dolore della donna che si trasforma in rabbia, disprezzo, e poi vendetta. Da lì tutto comincia: il deserto degli orrori torna in scena, così come il suo triste spettacolo di un mondo alla deriva. Il regista coglie l’occasione di guardare il mondo dagli occhi di Furiosa, e mai come prima d’ora si concede tutto il tempo necessario per sguazzare fra i meandri del suo universo dannato.
La messa in scena di Miller è talmente chiara e convinta da rasentare il didascalico all’apparenza, eppure è perfettamente funzionale a un film che riconosce nello spettatore il potere di giudicare oltre l’essenziale. Uno spettacolo che riesce a raccontare attraverso le immagini, in uno slancio di purissimo cinema, e che si fa sorprendentemente contemporaneo. Tra i suoi deliri e i suoi particolari, Furiosa (girato più di due anni fa) riesce a raccontare uno spaccato profondamente inquietante del nostro tempo in un meticoloso gioco di sottotesti: lo spettro della guerra si fa sempre più macabro e ingombrante rispetto al passato, al punto che sembra quasi impossibile sottrarsi dalle fiamme di un inferno destinato a bruciare ogni cosa – chiaro rimando a un presente sempre più cupo, ma non per questo destinato a dominare la scena.
L’importanza dello scopo
L’elemento più interessante, e forse persino sorprendente di Furiosa potrebbe sembrare appena accennato. Invece, spinto da una maniacale convinzione registica, George Miller lascia che a emergere sia la ricerca di una nuova speranza oltre l’oblio. Una contraddizione tematica rispetto al pessimismo alienante della sua ambientazione, ma proprio per questo talmente penetrante da imprimersi nella mente di chi osserva. Non si dice nulla, ma lo si evince dagli sguardi e dai non detti: oltre la rabbia, oltre l’istinto, l’uomo non ha davvero perso la propria umanità. L’ha soltanto sotterrata nella terra rossa, lasciando che lo spettatore più attento possa accorgersene – ricordando che quella scintilla può brillare anche quando è l’orrore a prevalere.
Il fatto che questo dettaglio sia nelle mani dell’unico protagonista femminile della saga è quanto mai rivoluzionario: seguendo una prospettiva davvero femminista, spinta dall’auto-affermazione e dal rilancio, Furiosa prende Mad Max fra le mani e lo trasforma in qualcosa di più profondo. L’opera appendice si stacca dalla carne e prende forma propria, alimentando la propria mitologia oltre la vendetta e il desiderio di morte. Miller trova i mezzi per dare a Furiosa un valore nuovo: la rende strumento narrativo attraverso cui alternare azione e introspezione, vendetta e riscatto in un’odissea che segue la rotta del passato per tracciare una nuova strada. Un percorso diverso anche nel suo essere femminile, che si allontana progressivamente dall’istinto per farsi allegoria di un nuovo scopo: preservare (se stessi, la fertilità, il futuro), anziché distruggere.
Un furioso paradosso
Furiosa non è Max, e non potrà mai esserlo: Fury Road è destinato a rimanere un unicum nella storia recente del cinema, mentre questo film sarà costretto a vivere a metà tra il desiderio di autoaffermazione e paragoni impossibili. A conti fatti, Furiosa ha tutte le carte in regola per lasciare un’impronta altrettanto importante in quest’anno di cinema, nonostante sia quasi impossibile slegare l’opera dalla complessità di certe variazioni stilistiche. Una protagonista meno “mad” di quanto si possa pensare, meravigliosamente donna, che considerando la summa dei due capitoli è già nella storia del cinema. George Miller ha fatto rinascere la sua saga ancora una volta (alla bellezza di 80 anni) soprattutto grazie a lei, il vero cuore di un’ispirazione che fa scuola.
Al netto di un’opera così profonda e intrigante, tanto per lo spettatore meno attento quanto per il cinefilo incallito, sorprende trovarsi di fronte a un paradosso al box office: gli incassi sono sotto le aspettative, leggermente sotto anche al precedente capitolo, e le stime non sembrano certo incoraggianti. Un particolare che apre le porte a un dilemma sempre più problematico: è la comunicazione legata al cinema a dover cambiare per avvicinarsi a un determinato pubblico, o serve un impegno di altro tipo per spingere nuovamente il cinema verso la gente? Quel che è certo, è che un’opera così brillante non si meriterà mai di essere relegata a esperimento mal riuscito. Tantomeno a scomparire sotto la polvere.
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