Nel 1990, il regista statunitense David Lynch dirige Cuore selvaggio, proprio nel bel mezzo della lavorazione ad un altro progetto dei suoi più grandi: Twin Peaks. Il film è tratto dal romanzo di Barry Gifford, ma se lo scrittore realizza un’opera composta e dai forti richiami shakspeariani, Lynch, dalla sua dirige un film che scava, ancora una volta, nei meandri delle sue ossessioni; un’opera di sensoriale bellezza, endorfinica e libera da ogni schema. Nell’edizione di Cannes di quell’anno, tra gli innumerevoli detrattori, il regista riceve l’ambita e sacrosanta Palma d’oro consegnata dal presidente di giuria Bernardo Bertolucci. Il film vede come protagonista assoluta una delle coppie più moralmente discutibili della Storia del Cinema, ma anche più dolcemente innamorate. I due attori principali sono Nicolas Cage e Laura Dern, rispettivamente Sailor e Lula.
La Palma d’oro della vergogna
Cuore Selvaggio è il suo regista, ma è anche del regista che lucidamente decise di premiarlo a Cannes, è un sogno ad occhi aperti ma dal sentimento spezzato, è quel preludio a Twin Peaks, il quale spirito aleggia nelle sigarette fumate dai protagonisti nelle stanze d’America. È la rappresentazione della disillusione della perdita del sogno, una volta che la meta di casa del mago di Oz, che tanto aveva tormentato le notti di Lynch, diventa incomprensibile ed irraggiungibile.
Cuore Selvaggio è stata la Palma d’oro della vergogna, dell’oscenità, dell’offesa alla morale, quella del cattivo esempio, quella che la critica dell’epoca, completamente incapace di comprenderne la grandezza e il senso, bocciò senza troppi scrupoli nemmeno tentando di sforzarsi a capire la regione secondo la quale una giuria internazionale aveva assegnato un premio così prestigioso a quel sogno utopico fomentato dai chilometri e chilometri mangiati di asfalto percorrendo quella strada semi smarrita verso Hollywood. Possiamo affermare con fermezza che Bernardo Bertolucci sia stato il principale fautore di tale scelta: la grandezza della sua decisione risiede nella capacità di analizzare la realtà del proprio tempo e di comprenderne le sfaccettature, assegnando un premio dalla connotazione politica proprio ad un film come Cuore Selvaggio.
Tuttavia, non una politica congelata nel suo tempo, cioè incapace di rievocare lo splendore della sua immagine nel corso di esso, bensì una politica fatta appunto di simboli e di immagini capaci di resistergli. Per citare uno dei grandi cineasti, a cui Bernardo fu grande ispiratore e Maestro: Luca Guadagnino, il quale disse di lui: “Bernardo non è passato, Bernardo è futuro. Il Cinema non deve mai essere proiettato al passato ma sempre qualcosa che parla del presente con riflessi soprattutto nel futuro”. Il premio di Bernardo fu, dunque, un riconoscimento al tempo che il Cinema sa muovere, alla sua capacità di essere infinito e sconfinato seppur arginato da tempi precisi e finiti, tutto questo anche se si invecchia, anche se la pelle si ruga e non ci si riconosce più.
Cuore selvaggio fu sopratutto il premio ad un cambiamento, una rivoluzione, quella che Bertolucci aveva inseguito negli anni 60′ e che tanto indulgentemente si sforzò a trasporre. La rivoluzione del film di Lynch non è esplicita e dichiarata e di certo non visibile agli occhi fossilizzati della maggior parte del pubblico dell’epoca. Una rivoluzione che piano piano si sarebbe affermata a livello internazionale, in particolar modo, se si cerca di analizzare quelli che furono i vincenti del festival di Cannes di quel periodo a cavallo tra la fine degli anni 80′ e l’inizio dei 90′. In quel periodo infatti, vinsero titoli dallo spirito sovversivo come Sesso, bugie e videotape di Steven Soderbergh, l’anno prima di Lynch, ma anche Burton Fink dei fratelli Coen, fino a giungere alla sprizzante amarezza di Quentin Tarantino con il suo Pulp Fiction.
La rivoluzione di una Hollywood, dunque, in grado di psicanalizzarsi senza aver paura delle proprie cecità narrative conservate per troppi anni. Un’ ondata rivoluzionaria capace di annullare i dogmi dei concetti più puramente classici e di gettare il canovaccio per un nuovo concetto più ampio che abbracciasse anche le classi sociali più precarie e povere, per citare Tarantino: “Quelli che lo prendono sempre nel culo dal governo.” Una controcultura appena sbocciata, i quali simboli erano quelle generazioni di nipoti dei “Godfathers” della New Hollywood, bramosi di un grido di libertà al fine di muoversi al di fuori di quell’industria che per troppo tempo gli aveva incatenati.
Esistono davvero buoni e cattivi?
In Cuore selvaggio, il fuoco è elemento che divampa, esso non dipende da nessuna altra cosa. Fattore esemplificativo della vita stessa, ma anche icona di un fervore impossibile da domare e bollente a tal punto, che è impossibile da raffreddare. Il motore che dà il via all’inizio del film è il mancato assassinio di Sailor da parte del sicario inviato appositamente dalla madre di Lula per uccidere, appunto, il suo fidanzato.
Lynch non si trattiene affatto dal mostrare la bruttezza di un cranio sfondato, della lucentezza del sangue e sofferma la macchina da presa sui pezzi di cervello attaccati ai muri, come un bambino che ha un grande bisogno innato di vedere da dietro uno spioncino, cioè la la macchina da presa quella sadica espressività umana che è la violenza, la quale da sempre alberga il suo Cinema. In quella dura sequenza iniziale i ruoli si ribaltano: l’assassino diventa vittima assassinata e la vittima da assassinare si fa carnefice; la stanza si muta alternandosi con le urla di Lula, spaventata a morte. La macchina da presa inquadra eccitata l’enfasi dell’azione e delle sue conseguenza come il sudore sulla fronte di Sailor, il sangue e i vestiti stropicciati a seguito di quella violenza.
Eppure, ci si interroga su chi davvero sia la rappresentazione del male incarnato, su chi prima di divenire spietato giudice era vittima sacrificale, chi mosso da profonda invidia non accetta lo sbocciare di un amore, che nonostante sgangherato e squilibrato non smette mai di pulsare di profonda passione; è Marietta Fortune, intrisa di potere ed invidia, odiosa fino al midollo e alla costante ricerca di quel diamante di pura bellezza concessa solo ad un’anima giovane come sua figlia. Marietta Fortune è la malvagia strega dell’Ovest, ma è anche la matrigna di Biancaneve. È quell’individuo che non accetta lo scorrere del tempo e della sua inesorabile fine, punto esclamativo che pone un non ritorno alla bellezza e che inevitabilmente diventa pretesto per cercare di riprendersela e per invidiare le fortune degli altri.
Un Road Movie all’insegna dell’amore e della violenza
Cuore selvaggio ci dice che il male è preesistente sin dalle radici, è l’elemento che permea il concetto di cui la famiglia è imbevuta, è il basamento sul quale di dipana e si alimenta, come un fuoco, fin dalla nascita. Se consideriamo la famiglia come una piccola porzione dell’universo, allora è chiaro che questo sia popolato da criminali di ogni sorta, demoni danteschi appartenenti a gironi infernali che affliggono l’umanità; da qui si costituisce il road movie lynchiano, formula che diverrà, anni dopo, il lungo cammino di Una Storia Vera, un film su un viaggio non attraverso gli spazi, bensì attraverso l’interiorità dei vuoti creati dal singolo individuo.
Sentimento che trova primordiale forza nella storia d’amore tra Sailor e Lula, i quali vivono il loro rapporto ardentemente sia sessualmente che verbalmente. I due si raccontano l’un l’altro, aprendosi con le proprie intimità e così facendo, dissotterrano l’idea del viaggio di ritorno, a quella casa: illusione del mito di Oz, sventrato e perduto. La casa è il piedistallo di radici che innalza il rapporto, è la difesa nei confronti delle insidie del mondo, delle sue violenze che cercano di sopraffare i due ragazzi. Riversati nella mischia di un mondo a loro avulso, i due ragazzi devono imparare a curarsi le ferite e a sopravvivere aggrappandosi a quel barlume di speranza residente nel loro rapporto.
Il mondo che Lynch crea non è edulcorato e compassionevole, poiché per sconfiggere il male che lo arena, bisogna necessariamente immischiarsi con esso, sprofondare in una catabasi diventandoci quasi un tutt’uno. Il percorso del regista nelle piane e polverose desolate strade statunitensi è un itinerario empirico in quanto alieno a leggi e principi, prerogativa di ogni essere umano, il cui squilibrio deve obbligatoriamente essere anti inetto, cioè parziale: la scelta è tra bene o male. In questo senso, il viaggio è pregno di storia del popolare, poiché solo attraverso la deformazione dell’eleganza di linguaggio o di azioni, con effetti sboccati e sfacciati rende l’idea di un umano sempre più falso e inespressivo.
Il fuoco di Cuore Selvaggio non smetterà mai di ardere
Alle spalle del progetto Cuore selvaggio, vi è il nome di Monty Montgomery, il quale successivamente avrebbe ricoperto i panni del cowboy in Mulholland Drive, a evidenziare una svolta nel percorso creativo di Lynch, con una sua realizzazione e riconoscibilità. Se nell’avvenire Twin Peaks, Lynch inscenava la dicotomia tra sogno ed incubo e le loro complesse materializzazioni e metabolizzazioni, in Cuore selvaggio la materialità brucia tutto attorno a sé, come un sempre presente fuoco che visibilmente si palesa.
Chissà se David Cronenberg con il suo motto “Lunga vita alla nuova carne” avrebbe amato il film, sicuramente sì, perché in Cuore selvaggio la carne è viva, terrigna, sanguigna, lo è attraverso i denti di Bobby Peru, la gamba metallica di Juana, la seviziatrice al soldo di Perdita Durango. Cuore selvaggio sfrutta le argomentazioni presenti anche successivamente in Twin Peaks come l’amore giovanile dannato, l’estrema necessità di vivere al massimo, la lotta tra elementi maligni e benigni, il conflitto generazionale sul concetto di bellezza rubata, e tutti questi elementi sono organicamente esposti con un fare prepotente e arguto.
Lynch firma un film rivoluzionario, appunto, al di fuori degli schemi, libero nella forma e nel sentimento, sboccato sebbene sempre dolcissimo, pronto a sciogluersi alla vista di una bacio appassionato di due giovani nel bel mezzo di un’autostrada, a seguito di una smielata serenata da parte del lui nei confronti della sua amata. Sailor, stremato e ferito a terra, riceve in soccorso Glinda, la strega buona, interpretata da Sheryl Lee, la futura Laura Palmer, la quale gli dice: “If you’re truly wild at heart, you’ll fight for your dreams. Don’t turn away from love, Sailor”.
Non bisogna mai scostarsi da quel sentimento d’amore, forse puerile, ma che arde ancora poiché ha saputo sopperire alle sofferenze della notte più buia. E così, il tetro bianco e nero di The Elephant Man si dipana e raschia la nebbia al fine di cedere il posto ad un crogiolo di colori ardenti che bruciano di vita. Le deformità degli esordi hanno scelto di dormire sonni costituiti da sogni splendenti e da incubi inquietanti, selvaggiamente illuminati dal sole crepuscolare di due innamorati, e cosa c’è di più bello di due giovani innamorati? Niente.
Sailor salta sul cofano della decappottabile di Lula, le tende la mano, lei lo accoglie tra le sue braccia. Love me tender, love me sweet, never let me go. You have made my life complete, and I love you so.
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