Il mondo si divide in due tipi di persone. Chi ama Euphoria e chi non ha mai visto nemmeno una puntata. Rubiamo questo adagio – l’originale è una frase riferita a Bruce Springsteen – per far capire come Euphoria, la serie HBO di Sam Levinson con Zendaya, in onda ogni lunedì dalle 23.15 su Sky Atlantic (e in streaming su NOW), sia un’opera di quelle che, non appena ti avvicini, ti conquista e non ti lascia più andare. Una serie – passateci il gioco di parole visto il tema del film – che crea dipendenza. È una serie completamente diversa da qualsiasi teen drama che abbiamo visto finora. E in realtà è proprio diversa da qualsiasi altra cosa sia apparsa sul piccolo schermo. Andiamo a vedere allora quali sono i segreti di Euphoria.
Questa è Euphoria
Euphoria è una serie agli estremi, e la seconda stagione inizia proprio sbattendoci in faccia il suo modo di essere. Quasi che Sam Levinson volesse dirci “questa è Euphoria”, “noi siamo questo”. E allora ecco, da subito, nudi, spari, pestaggi, droghe di tutti i tipi, sesso sfrenato e disperato, ma anche tanta attrazione vera, amore, bisogno di trovare intimità, la propria identità, il proprio posto nel mondo. E tutto questo funziona perché il set di Euphoria è evidentemente un’esperienza estrema, totalizzante, appassionante e sfiancante per chi ci lavora. Levinson chiede ai suoi personaggi e ai suoi attori di mettersi a nudo, letteralmente, nel corpo, ma anche nell’anima. Le situazioni estreme, le interpretazioni viscerali ci trascinano dentro, dentro fino al collo nei drammi e nei disagi di questi ragazzi.
Zendaya e Hunter Schafer, Sydney Sweeney e Jacob Elordi
Rue (Zendaya) è un cucciolo impaurito, è qualcuno lotta per trovare la forza di resistere alle pressioni derivate dall’amore, dalla perdita e dalla dipendenza. L’abbiamo vista innamorata, spaventata, ma anche, molto spesso, apatica, scollegata. Jules (Hunter Schafer) è forse il personaggio simbolo della serie, è il centro di un discorso sulla sessualità, su cui torneremo dopo. Il cuore della prima stagione – e dei due speciali che hanno fatto da ponte – sono loro. Ma in questa nuova stagione c’è spazio per tutti. Cassie (Sydney Sweeney) ha il volto di una bambola rotta, un volto di porcellana andato in frantumi. E quei frantumi si chiamano lacrime. Cassie ha un corpo da pin-up e una fragilità che la lascia in balia del vento. Lexi (Maude Apatow), la sorella maggiore di Cassie, è finalmente in scena, con il suo volto furbo, colto, interessante. Sembra essere la “regista” che ha il controllo di tutto. Ma sarà davvero così? Quel look da collegiale, quel rossetto rosso sulla bocca piccola, gli occhi neri e curiosi la rendono un personaggio enigmatico, che ci incuriosisce molto.
Così come ci incuriosisce il suo legame con Fezco (Angus Cloud), spacciatore quasi afasico, un ragazzo cresciuto senza genitori e in preda a esplosioni di violenza. Nate Jacobs (Jacob Elordi) ha il volto che sembra scolpito nella pietra, sembra inscalfibile, il duro e il bello della scuola che abbiamo visto in tanti film. Eppure ha nel rapporto con il padre, Cal, il suo tallone d’Achille. E poi c’è Kat (Barbie Ferreira), la ragazza sovrappeso che ha trovato la sua via alla sensualità e all’amore, ma non riesce a piacersi. La seconda stagione di Euphoria vede tutti i personaggi a fuoco: anche quelli che sembravano stare sullo sfondo, sfocati, arrivano in primo piano, hanno la macchina da presa su di loro. Il nuovo Euphoria è più corale, è un mosaico.
Jules: Hunter Schafer è il volto simbolo di Euphoria
E poi c’è Jules, un personaggio che ha compiuto un percorso di transizione, che ha basato la sessualità sugli uomini, ma non le interessa più quello che vogliono gli uomini. “Per me essere trans è spirituale, è una cosa mia. Non voglio essere statica. voglio essere viva. Si è sempre trattato di questo. Di restare viva”. È questo che aveva detto nel secondo degli episodi speciali dello scorso anno. Jules è interpretata da Hunter Schafer, una modella transgender che dà una forza e una credibilità senza pari al suo ruolo, alla storia del personaggio, che è uno dei punti di forza della serie. Euphoria è fluidità di genere, è libertà di scelta e di orientamento, e in questo si avvicina alla bellissima We Are Who We Are di Luca Guadagnino.
Quegli spotlight puntati sulla sofferenza
Euphoria è stato definito un ritratto a luci al neon della Generazione Z americana, dove tutto è glam, pop, fluorescente. In questa seconda stagione la luce ha un compito sempre più importante, narrativo ed evocativo. Pensiamo a come, alla fine del primo episodio, isola la figura di Rue – grazie al fuoco intorno al quale si trova con alcuni amici – mentre la vediamo dal punto di vista di Jules. E a come, arrivando dal fondo dell’inquadratura, enfatizza con un controluce il bacio tra le due. O come, nell’episodio 2, sempre le luci dorate e gli effetti di controluce creano un mondo da sogno per l’ideale love story tra Nate e Cassie. La luce calda di un abat-jour dà un tono caldo e dorato a un incontro. Le luci delle candeline illuminano il volto triste di Cassie. Le mille luci stellanti di una mirrorball ammantano Cal nel suo ballo nel pub. Che l’illuminazione sia palesemente forzata e artificiale, o che sia proveniente da una fonte che è in scena, serve sempre a incorniciare, a enfatizzare i volti. In Euphoria le luci sono degli spotlight puntati sulla sofferenza. Ma sono anche lì, allo stesso tempo, per enfatizzare la bellezza. È come se Levinson dicesse ai ragazzi: “siete giovani, siete bellissimi, avete questa età, non la buttate via, un giorno vi renderete conto di tutto questo. E forse lo rimpiangerete“.
Gli anni Ottanta, gli adulti, il rimpianto
Il rimpianto sembra essere uno dei fattori che rendono unica Euphoria. Prendiamo il personaggio di Cal Jacobs, il padre di Nate, interpretato da Eric Dane. Lo abbiamo ritenuto un pervertito, nell’episodio pilota della stagione 1. Ma nella stagione 2 ne abbiamo conosciuto le ragioni. L’episodio 3, che racconta la sua backstory, è un viaggio immersivo negli anni Ottanta (un immaginario a cui la serie deve molto), sulle note di Kick degli INXS, che ci fa capire quello che gli è accaduto e quello che lo ha reso quello che è. Allora, pensando a Cal, o anche a Sam Levinson, un adulto che raffigura la gioventù in un certo modo, possiamo anche intendere Euphoria come il rimpianto per una vita che non c’è più, per un tempo verso il quale non si può tornare. L’insistere su quei corpi bellissimi può voler dire questo, il desiderio di tornare indietro, di essere di nuovo giovani. Tornare nello stesso pub, premere il tasto di un juke-box su una canzone degli anni Ottanta vuol dire tornare indietro nel tempo, quando ballavi con qualcuno che amavi sulle note di Never Tear Us Apart.
Ma c’è qualcosa di più, che differenzia Euphoria da tutti gli altri teen drama, e ci fa capire che, in fondo, un teen drama non lo è. Euphoria riguarda anche gli adulti. In gran parte dei teen drama, da Beverly Hills a Dawson’s Creek a The O.C., gli adulti erano il porto rassicurante per gli adolescenti, erano persone realizzate, erano dei punti fermi nel caos sui quali i ragazzi, quando lo volevano, potevano contare. In Euphoria sono spesso assenti, ignari. E in qualche caso sono addirittura loro stessi il caos.
Lanciati a tutta velocità senza cinture di sicurezza
Guardate la scena del primo episodio di questa seconda stagione, quella in cui Nate e Cassie sono in macchina. È una scena che racchiude il senso di tutta la serie. Che è la storia di giovani lanciati a tutta velocità nella notte, verso il buio, senza cinture di sicurezza, in un’auto troppo veloce per loro. È da brividi. Ma il rischio è quello di schiantarsi. A quegli adolescenti, a cui ormai vuoi bene, forse perché sei stato come loro, forse perché i tuoi sedici anni ti restano dentro per sempre, vorresti dire che passerà, che ce la faranno, che andrà tutto bene. Ma non ne sei poi tanto sicuro.