Pare Stanley Kubrick, ma non lo è. Eppure, nel corso dei decenni è stato più e più volte affiancato allo stile, alla poetica e ai contenuti del grande regista britannico scomparso nel 1999; ed ora, con l’acclamato La zona d’interesse (in uscita nelle nostre sale giovedì 22 febbraio con I Wonder Pictures) il suo cinema sta raccogliendo giustamente i suoi frutti più maturi, ed il plauso unanime di pubblico e critica. Stiamo parlando di Jonathan Glazer, regista e sceneggiatore con al suo attivo soltanto quattro lungometraggi in ben 24 anni di carriera cinematografica.
Eppure, al di là della poca prolificità di questo cineasta, Glazer si è fatto le ossa anche e soprattutto nel campo della regia di spot pubblicitari e videoclip, alcuni di questi divenuti nel tempo particolarmente iconici. Tanto che nella nostra breve dissertazione sullo stile dell’autore anch’esso britannico, faremo riferimento anche ad alcuni suoi lavori musicali; perché crediamo fermamente che, per comprendere al meglio la poetica di Glazer, è forse necessario prima soffermarsi su alcuni suoi videoclip cult.
In principio: dai Massive Attack ai Jamiroquai
Un hotel fatto di camere e di lunghi corridoi, spazi liminali che sembrano slanciarsi verso una verità ignota, ma che agli occhi dei protagonisti del videoclip di “Karmacoma” dei Massive Attack e dello spettatore televisivo (l’opera audiovisiva è stata presentata per la prima volta su MTV nel lontano 1995) hanno le fattezze di un incubo febbricitante. Vi ricorda qualcosa? Ma sì, è proprio un omaggio spudorato allo Shining di Stanley Kubrick. Dell’influenza che il regista cult ha avuto sulla sua formazione artistica e professionale, Glazer non ne ha mai fatto segreto, tanto che i suoi prodotti successivi (tanto nel campo dei videoclip musicali, quanto negli spot pubblicitari) dell’autore immortale di capolavori quali Arancia meccanica e 2001: Odissea nello spazio condividono stralci narrativi, ambientazione, senso di alienazione e solitudine.
Per capire la poetica dietro la macchina da presa di Jonathan Glazer anche e soprattutto al suo debutto cinematografico, era assolutamente necessario fare un paio di passi indietro e soffermarsi sulla sua prolifica produzione destinata alla musica e al commercio televisivo. Oltre all’incubo di anime e camere d’albergo del videoclip della canzone “Karmacoma” dei Massive Attack, Glazer flirta di nuovo con il fantasma di Stanley Kubrick nel videoclip diretto l’anno sucessivo, e di maggior successo commerciale.
Nel 1996 il cineasta inglese si occupa dietro la macchina da presa del video della popolarissima canzone funky/pop “Virtual Insanity” dei Jamiroquai, dove il cantante protagonista quasi assoluto delle immagini vive rinchiuso all’interno di un cella imbottita, lontano ed ignaro dei problemi che attanagliano il mondo al di fuori. Talmente preso dallo spazio fisico e mentale di un bianco quasi catatonico, che non si accorge del sangue che inizia progressivamente a scorrere al di sotto del divano, a destra della cella. Una cella roteante e quasi futuristica che pare ricordare quella in movimento di 2001: Odissea nello spazio, mentre i rivoli (lì erano più che rivoli, erano fiumi!) di sangue che fuoriescono al di sotto del sofa rimandano (ancora una volta) al seminale Shining.
2000: Odissea Cinema
Siamo alle porte del Nuovo Millennio quando Jonathan Glazer accetta di realizzare il suo primo lungometraggio cinematografico. Basato su una sceneggiatura originale scritta da Louis Mellis e David Scinto, Sexy Beast – L’ultimo colpo della bestia riscrive le regole del gangster movie attraverso un racconto underground tutto incentrato sulla figura dell’energumeno rapinatore di banche Gary Dove (Ray Winstone), costretto dal suo psicotico boss (un eccezionale Ben Kingsley candidato all’Oscar per il ruolo) ad affrontare un’ultima, spettacolare retata prima della meritata pensione. Un ironico heist movie che gioca con la sensazione di isolamento e di alienazione psicologica del suo personaggio principale, capace di straniare e spiazzare lo spettatore a più riprese.
Quattro anni dopo, Jonathan Glazer torna nel mondo del cinema grazie a Birth – Io sono Sean, provocatoria fiaba sul mistero dell’amore e della reincarnazione con protagonisti interpreti come Nicole Kidman e Lauren Bacall. Una fiaba nera e destabilizzante che molta critica di settore, all’uscita del film nel corso del 2004, aveva etichettato come spudorata copia carbone dello stile e della scrittura dei personaggi di Stanley Kubrick. Invece Birth, più che rifarsi alla poetica e al cinema del monumentale regista, indaga con spiazzante lucidità il fardello del lutto e del passato nel cuore degli esseri umani, e a cosa si è disposti ad arrivare per rivivere ciò che si è perduto per sempre. Anche frequentare un bambino di 10 anni che afferma di essere la reincarnazione del marito deceduto anni prima.
La solitudine degli alieni primi
Da Birth – Io sono Sean, massacrato dalla stampa di settore ma particolarmente apprezzato dal pubblico, Jonathan Glazer farà passare ben nove anni prima del suo ritorno dietro la macchina da presa per un’opera destinata al grande schermo. Nel 2013 lo fa con Under The Skin, adattamento del romanzo psico/sci-fi di Michel Faber con protagonista un alieno dalle fattezze femminili (una silenziosa e disturbante Scarlett Johansson), che viene mandato sulla Terra con il compito di annientare l’umanità. Assunte sembianze da donna e il nome di Laura Flynn, comincia a seminare vittime per le colline scozzesi ricorrendo al sesso, unica arma a sua disposizione. Con il passare del tempo, però, Laura comincia ad assaporare i benefici apportati dall’essere umano e inaspettatamente mostra i primi segni di un tenero sentimento quando è attratta da un uomo di mezza età, andando contro agli scopi per cui era stata mandata sulla Terra.
E con Under The Skin, fischiato alla sua presentazione in concorso a Venezia 2013 ma poi con il tempo diventato vero e proprio cult movie, il regista e sceneggiatore britannico mette in scena un disturbante teatro delle miserie e delle straordinarie debolezze umane. Come ad esempio il sentimento amoroso, già dissertato in chiave sovrannaturale nel precedente Birth e qui trasfigurato in una narrazione rarefatta e sonoramente stimolante (la cacofonica ed al contempo evocativa soundtrack di Mica Levi ne è testimonianza ineccepibile), qui portato agli estremi limiti del linguaggio cinematografico. Tra fantascienza minimalista e curiosa installazione artistica di cosmica portata universale.
Lo spazio liminale dell’orrore umano
E poi, dieci anni di silenzio, almeno sul grande schermo. Proprio come Stanley Kubrick, Jonathan Glazer centellina le sue esperienze cinematografiche scegliendo con cura quasi chirurgica i progetti da scrivere e dirigere. E cosi, nel 2023, il regista britannico sbarca al Festival di Cannes con La zona d’interesse (qui la nostra recensione dal festival), agghiacciante adattamento del romanzo omonimo di Martin Amis. Dalla kermesse francese, ne esce con un Grand Prix della Giuria, seguito da ben 5 candidature all’Oscar, tra cui quelle al miglior film, la regia e il miglior film internazionale. Un lungometraggio che sembra compiere un cerchio perfetto con gli slanci e i contenuti che sin dalla radice hanno animato il cinema (e non solo) di Jonathan Glazer.
Oltre alla messa in scena di un’apparente idillio quotidiano a distanza di un muro di cinta dagli orrori indicibili ed irrappresentabili dell’Olocausto ad Auschwitz (del nauseante genocidio nazista nei confronti dei prigionieri ebraici rimangono “solo” raccapriccianti suoni in lontananza di snervante efficacia), in La zona d’interesse l’autore ritorna agli spazi liminali che hanno sempre fatto da ideale location ai personaggi dei suoi film, ma anche dei suoi spot e dei suoi videoclip. Non-luoghi al di fuori del tempo e dello spazio, stanze e luoghi vuoti e desolati, che possono provocare un forte senso di smarrimento, solitudine ed alienazione. Come ad esempio un lungo corridoio d’hotel infestato, un’inquientante cella di prigione imbottita, un giardino maniacalmente perfetto che si affaccia sul nero abisso dell’esperienza umana oltre il muro di recinzione. Cardine imprescindibile della poetica di un cineasta che non cessa di ricercare l’ordine nello smarrimento della contraddittoria natura dell’Uomo all’interno della Storia. Piccola o grande che sia.
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