Da qualche anno si parlava di un ritorno in sala del franchise di Matrix, ma non per forza con la partecipazione delle sorelle Wachowski e del cast originale. Poi, la svolta: Lilly ha dato forfait per motivi personali, mentre Lana ha scelto di tornare all’ovile per esprimere alcune idee coltivate nell’arco di tempo passato dall’ultima avventura cinematografica di Neo e compagnia bella (autunno 2003).
Eccoci, quindi, alle prese con la recensione di Matrix Resurrections, un sequel che è anche reboot – concetto insito nella stessa natura del franchise, come ben ricorda chi ha visto il secondo film – e autocritica, e che nelle nostre sale arriva a inaugurare il 2022, mentre in patria è uscito sotto Natale con risultati deludenti, a causa della scellerata decisione della Warner Bros. di fare uscire tutti i suoi titoli del 2021 al cinema e in contemporanea, senza costi aggiuntivi, sulla piattaforma HBO Max (su diciassette film usciti, solo tre sono andati bene al box office).
Matrix Resurrections (2021)
Genere: Fantascienza/Azione
Durata: 148 minuti
Uscita: 1 gennaio 2022 (Cinema)
Cast: Keanu Reeves, Carrie-Ann Moss, Neil Patrick Harris
Si torna a inseguire il Bianconiglio
Sono passati vent’anni dal sacrificio di Neo (Keanu Reeves), morto per distruggere una volta per tutte l’ex-agente Smith e ripagato da una tregua fra umani e macchine, con la possibilità di uscire da Matrix per chiunque volesse farlo. Ma la pace è stata provvisoria, e così ha inizio una nuova ribellione, i cui partecipanti scoprono, a sorpresa, che Neo sarebbe ancora vivo. Ma per coinvolgerlo nella nuova battaglia bisognerà prima risvegliarlo, poiché lui è tornato a essere Thomas Anderson e vive in un mondo dove la saga di Matrix esiste come opera di finzione. Un mondo dove lui continua ad avere allucinazioni e si fa prescrivere farmaci di colore blu dal suo analista (Neil Patrick Harris). Un mondo dove, ogni giorno, va a prendere il caffè nello stesso posto e osserva da lontano una certa Tiffany (Carrie-Anne Moss), che gli ricorda qualcosa che non riesce del tutto a comprendere.
“Famolo strano!”
Privata dell’apporto creativo della sorella, Lana Wachowski si è rivolta ad altri collaboratori per la scrittura di Matrix Resurrections, tra cui David Mitchell, autore del romanzo e co-autore del copione di Cloud Atlas. E c’è un’influenza di quel film – così come della serie Netflix Sense8, di cui gran parte del cast appare in piccoli ruoli – in questa nuova incarnazione del franchise, dove i sentimenti e le emozioni trascendono le epoche e l’atto creatore stesso è oggetto di analisi. La Warner viene citata per nome, con una cattiveria che il recente sequel di Space Jam può solo sognare, e c’è una sequenza che, per intento dissacratorio, può essere paragonata al momento di Star Wars: Gli ultimi Jedi in cui Yoda abbatte l’albero che conteneva i testi sacri. Si metteva in discussione la devozione quasi religiosa dei fan nei confronti della saga lucasiana, e Wachowski fa lo stesso qui, rinnegando ogni interpretazione che è stata data della prima trilogia. È un disperato urlo di guerra contro la macchina hollywoodiana e la sua fame di seguiti e remake, con un sottotesto tutt’altro che sottile: “Volevate un altro Matrix? E io ve lo do, ma a modo mio!”
È un’espressione di libertà artistica allo stato puro, capace di incantare e frustrare in egual misura, una seduta di autoanalisi dove Neo è l’avatar di Lana Wachowski che, dopo quasi vent’anni dall’ultima volta che siamo scesi nella tana del Bianconiglio, si interroga su cosa fosse effettivamente vero in quei primi tre film. La risposta non riguarda il bullet time o le innovative scene d’azione, che qui sono eseguite con fare quasi (volutamente) sciatto, per accontentare lo studio ma senza cercare nuovi modi di rivoluzionare la componente spettacolare della saga.
No, la risposta è molto più umana e intima, e si cela nella dedica finale ai genitori della regista, le cui morti a distanza ravvicinata l’hanno persuasa a tornare in questo universo: “L’amore è la genesi di tutto.” Certo, non manca l’aderenza ad alcuni precetti del sistema mainstream attuale, post-credits incluso, ma è tutto filtrato attraverso una volontà di servirsi del genere per demolirlo e accantonarlo, preferendo concentrarsi sul rapporto tra due esseri umani.
Uno e trino
In una recente intervista, alla domanda “Preferiresti essere Neo o John Wick?”, Keanu Reeves ha risposto che sceglierebbe il primo, perché così potrebbe stare con Trinity. E se sul piano ludico è lecito interrogarsi circa le intenzioni della cineasta e quello che evidentemente deve essere stato un rapporto conflittuale con la Warner (difficilmente ci sarà un’altra collaborazione in futuro), su quello emotivo la sincerità del progetto è evidente: l’alchimia tra Reeves e Carrie-Anne Moss era il fattore umano principale della trilogia, cosa che il quarto episodio ribadisce con dirompente entusiasmo misto a malinconia, facendo il verso a mille blockbuster dove i personaggi sono sacrificati in nome di vuoti macromomenti che riducono il tutto al puro spettacolo nella sua forma più ipertrofica ed estenuante. Difficile non commuoversi quando i loro sguardi si incrociano di nuovo, perché dopo tutti questi anni è come rivedere due vecchi amici, e per fermarli non c’è simulazione che tenga. Perché in quel momento la resurrezione su commissione, che altrimenti non la manda a dire, non ha motivo per interrogarsi sulla sua ragion d’essere.
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Conclusioni
Matrix Resurrections rispetta e al contempo stravolge tutto quello che sapevamo del franchise, riportandolo alle origini in nome dell'amore che trascende ogni inganno virtuale.
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Voto ScreenWorld