Fargo, pur essendo a tutti gli effetti un piccolo cult della tv moderna, è diventato col passare degli anni un prodotto estremamente particolare. Da una parte, perché Noah Hawley ha creato un universo talmente profondo da sublimare l’opera dei fratelli Coen; dall’altra, perché (almeno finora) ogni stagione di questa fiaba antologica del reale avrebbe potuto essere l’ultima, e invece non si è mai rivelata tale. L’amore di uno degli autori più abili e audaci del piccolo schermo per due dei registi più importanti del nostro tempo è cosa nota; eppure, non è affatto strano pensare a Fargo come a un’opera sempre meno replicabile di stagione in stagione. Sarà un caso, certo, eppure il quinto ciclo della fortunata serie FX è riuscito a farlo senza ridondanze.
Le gelide nevi tornano ad avvolgere Fargo, torna l’eterna battaglia tra ordine e caos, tornano i suoi angeli spaesati e i suoi demoni a briglia sciolta. Stavolta, tuttavia, l’elemento d’impatto sociale si è fatto decisamente più aspro e diretto, con un Hawley che ha deciso di puntare forte su tematiche del “reale” mai così attuali – e potenzialmente oscure. Innanzitutto, colpisce l’approdo a un’epoca quanto mai vicina a noi: il 2019, in un’America travolta dal razzismo e dal sessismo più sfrenato mentre potenti di soldo e di spirito prevaricano ogni aspetto del vivere civile. Trascinato da una verve critica incontenibile, lo showrunner ha sfruttato un citazionismo potente che non si basa solamente sull’opera dei Coen, ma ne sfrutta la comunicabilità per attaccare direttamente la morale di chi osserva.
Cult, tra coraggio e devozione
Le passate stagioni hanno insegnato agli spettatori che Fargo non è un luogo, ma uno stato mentale: una vera storia criminale dove la realtà è più assurda della follia e dove la tentazione trascina l’uomo verso l’oblio. Una grottesca e funambolica parabola sul concetto di opportunità, declinata attraverso il tema della violenza criminale e portata in scena come un sogno febbrile. Non a caso, ciascuna stagione della serie è stata ambientata in una decade differente per approfondire più contesti culturali (e personaggi): l’obiettivo, chiaro sin dalle prime battute dell’iconica epopea di Lester Nygaard, è sempre stato quello di rappresentare l’umanità nella sua dimensione più fallibile, a contatto diretto con l’inaspettato.
I vari significati dell’opera ruotano intorno alla ricerca di senso di fronte all’inimmaginabile, con il crimine nel mid-west americano come filo conduttore tra una stagione e l’altra: un approccio narrativo che si lega più allo spirito dell’opera che ai suoi stilemi, e che in Fargo 5 trascende il citazionismo attraverso una spiritualità ancor più preponderante. Immersi in un contesto di tensione costante, i personaggi dell’ultima stagione rappresentano una società in cui si fa necessario un racconto di emancipazione femminile in un mondo governato da uomini violenti. Non è mai facile destreggiarsi tra citazionismo, satira e sottotesto, ma Hawley ha educato i suoi spettatori a muoversi nel marciume attraverso il grottesco e l’umorismo nero: pochi, semplici strumenti che permettano di riconoscere (e accettare) l’illusione del controllo senza perdersi come accade ai personaggi.
Brutalità onirica
A differenza della quarta stagione, Fargo 5 non ha avuto timore nel tornare a quegli elementi che hanno reso celebre film e serie per rielaborarli. La chiave femminista, tra metafore e riferimenti, è quasi palese. Eppure, anche di fronte alla prospettiva di una “boriosa” storia di empowerment, Hawley e soci non hanno voluto perdere quell’alone di macabro pessimismo nei confronti di chi il mondo lo abita per davvero. I personaggi femminili, forti e convincenti, sono circondati da uomini tanto affascinanti quanto spaventosi, utili a rendere quel messaggio all’apparenza surreale così tanto vicino al nostro reale. In questo senso, è impressionante notare come l’autore riesca a evolversi costantemente, trovando nuovi modi di raccontare l’umanità attraverso i suoi orrori.
A riprova di quanto analizzato negli anni, anche nel finale di questo Fargo “sulla violenza” emerge una cruda morale. Forse meno giudicante e lapidaria rispetto al passato, ma allo stesso modo estremamente istruttiva: l’idea di scendere fino al fango dell’esistenza per ribadire che la violenza non poterà mai l’uomo verso la salvezza assume qui un significato molto più complesso. Fargo è forse l’opera televisiva che più di ogni altra, anche di fronte ai giudizi altalenanti di pubblico e critica, è riuscita a preservare la propria coerenza. Grazie alla totale conoscenza e abnegazione del suo autore, questa stagione ha potuto ambire a vette qualitative insperate: archetipi e temi cardinali sono ormai parte di un’antologia complessa e (a tratti) intoccabile, che Noah Hawley ha preso tra le sue mani per creare qualcosa che pochi potevano aspettarsi.
Il nuovo (vecchio) volto dell’America
Se non sono bastate quattro stagioni a mettere in evidenza il sottotesto politico di Fargo, la quinta stagione ha travolto qualsiasi ipotesi con certezze disarmanti. Nell’eterna lotta tra ordine e caos, Hawley racconta in modo assurdo e maniacale le derive di un’America che rigetta se stessa: che si tratti dei deboli, degli emarginati o delle donne, l’orrore contemporaneo di Fargo tinge a pennellate forti e dense un quadro di terribile divisione in cui l’uomo col cappello è convinto di essere padrone del mondo – solamente per crollare sotto il peso della propria superbia, o della propria debolezza. Lo showrunner, forse ormai anche più dei fratelli Coen che gli hanno lasciato carta bianca, ha fatto suo lo spirito profondo di Fargo e riesce a modellarlo a proprio piacimento.
Quell’eterna danza d’anime senza padrone, attirate dal crimine come falene verso una fiamma e soggiogate dal peso della violenza, sembra aver trovato la giusta chiave per raccontare il reale in maniera ancor più diretta: all’illusione del controllo tipica della serie, la storia di Dot accenna all’illusione di controllo su una civiltà americana che vacilla in maniera sempre più preoccupante persino nei suoi principi cardine (un chiaro messaggio rivolto agli estremismi di Trump e del capitalismo). Se la quarta stagione rischiava di apparire troppo didascalica nel raccontare frammenti di storia vera, la quinta di Fargo mostra tutto attraverso i suoi personaggi, portando quella stessa illusione ad abbattersi sull’individuo.
Nella catarsi di uno sguardo che scruta dall’alto mondi popolati da bizzarri esseri umani, l’opera di Hawley lascia emergere con forza l’idea che nessun uomo possa avere il controllo sugli altri, esattamente come non può averlo sugli eventi.
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