Se fossimo dentro la più classica delle locande fantasy, Andrej Sapkowski sarebbe il tipico uomo burbero seduto in un angolo a bere da solo. Si gusterebbe una pinta in santa pace, forse si sporcherebbe i baffoni di schiuma, ma sicuramente avrebbe qualcosa da borbottare. No, non stiamo fantasticando sulle ali della nostra fervida immaginazione. No, perché il papà di The Witcher ha davvero un caratteraccio e sì, ha avuto anche problemi con l’alcool. Però è proprio da qui che bisogna partire per raccontare l’incredibile storia di The Witcher, una proprietà intellettuale che ha venduto milioni di romanzi, generato una saga videoludica cult e ora ingolosito Netflix, a caccia del suo Game of Thrones per riempire il grande vuoto di potere lasciato nel regno del fantasy televisivo.
Siamo partiti dal carattere spigoloso di Sapkowski, perché è proprio la sua disillusione ad aver reso Geralt di Rivia un personaggio così contemporaneo. Un solitario cacciatori di mostri che pensa solo a sé stesso, che si muove in un mondo arido, inasprito e pieno di odio nel cuore della gente. Sembra un fantasy, ma dopotutto non è poi mica lontano dal postaccio in cui ci viviamo noi. L’indole schiva del creatore si riversa nei gelidi occhi ambrati della sua creatura, e lo rende un emblema dei nostri tempi inariditi. Scopriamo insieme cosa si cela dietro il fenomeno transmediale di The Witcher, che tra pagine, pixel e skip intro su Netflix ha reso popolare un ruvido personaggio polacco.
Selliamo i cavalli, lucidiamo le spade, e lanciamoci nel fetido Continente per capire come si forgia un piccolo mito.
Dalla fiera dell’Est
Il regno di Aragorn e Daenerys è sotto attacco. Da qualche anno c’è uno strigo che se ne va in giro a strappare cuori di videogiocatori, lettori e spettatori per farli innamorare. Com’è possibile che il fantasy, da sempre esclusiva gelosamente custodita in terra britannica, sia stato conquistato da un tizio polacco con i capelli bianchi?
Per informazioni dovremmo rivolgerci soprattutto alla software house CD Projekt Red, ovvero dove Geralt è diventato popolare per davvero grazie a una trilogia di videogiochi che ha fatto tremare le gambe anche a Jon Snow. Solo che così faremmo arrabbiare quel signore baffuto che beveva birra nella locanda. Anche perché saremmo ingrati, visto che The Witcher lo ha partorito lui.
Per questo la nostra storia parte degli anni Ottanta. In Polonia. Più precisamente nella città di Lotz, proprio nel cuore del Paese. Qui vive il poliglotta Andrej Sapkowski, rappresentante e avido lettore di fantasy. Talmente appassionato da dilettarsi nella traduzione di saggi e romanzi dedicati ad epica gesta in magiche terre lontane. Un pomeriggio il nostro si imbatte in un concorso letterario indetto dalla rivista Fantastyka. Il bando prevede un premio al miglior racconto breve. Fantasy, ovviamente. All’epoca Andrej Sapkowski ha 38 anni, e sarebbe meraviglioso parlare di una scintilla creativa, di un progetto tenuto nel cassetto per anni che finalmente vedeva la luce, ma no. “Perché l’ho fatto? Ancora non lo so” dice quando gli chiedono perché abbia scritto quel racconto. Dopotutto il nostro Geralt di Rivia la sua riluttanza l’avrà pure presa da qualcuno. Il nostro, spinto dal suo spirito competitivo, partecipa con Wiedzmin, una novella in cui rilegge le fiabe e il folklore polacco in ottica più cupa e spietata.
Niente eroi, niente brave persone, solo gente che sopravvive. E soprattutto nessuna divisione netta tra Bene e Male (spesso alla base di molti fantasy), ma una zona grigia in cui muovere personaggi dalla moralità ambigua. Ed è qui, in questa sua personale Terra di Mezzo che nasce Geralt di Rivia. Cacciatore di aberranti creature. Né umano, né mostro. Il male minore, utile solo finché serve a fare lo spazzino di boschi e dungeon.
In quel concorso Sapkowski arriverà terzo. Motivazione secondo l’autore? La scarsa considerazione che il fantasy aveva in Polonia negli anni Ottanta. Secondo lui era considerata roba per ragazzini stupidi, incapaci di masturbarsi correttamente. Testuali parole. Però il suo premio lo riceverà comunque. Quale? La marea di lettere in cui i lettori della rivista chiedevano: “Non è che si può leggere altro su questo strigo?”.
L’autore non se lo fa chiedere due volte, così si mette sotto e scrive un’altra dozzina di racconti che nel 1990 vengono raccolti e pubblicati in un volume che segna l’inizio della fortunata vita editoriale dello strigo.
Anche perché in quel preciso momento in Polonia arriva di colpo una vitale boccata di ossigeno. La caduta del socialismo e l’istituzione della democrazia abbatte di colpo tantissime barriere culturali e tra le persone c’è grande fermento. Fame di cose nuove. E così libri e videogiochi che prima non erano ammessi circolavano finalmente liberi.
Liberi come un witcher padrone del suo destino. Liberi come un uomo che grazie allo strigo ha lasciato il suo vecchio lavoro per vivere solo di storie. E siccome The Witcher ci ha insegnato a credere nel destino e negli incontri imposti dal Fato, è importante ricordare che mentre Andrej Sapkowski è seduto davanti alla sua tastiera, dalle parti dello stadio di Varsavia ci sono due ragazzi che presto si sarebbero messi sul cammino di Geralt e Rutilia. E li avrebbero fatti diventare grandi.
Della carta facemmo pixel
Primi anni Novanta. Mentre le prime copie di Wiedzmin conquistano le librerie, tra i mercatini di Varsavia due ragazzi fanno buoni affari al limite del clandestino vendendo e comprando giochi importati dall’estero.
Si chiamano Marcin Iwiński e Michał Kiciński e nel 1994 decidono di fare le cose come si deve fondando CD Projekt. No, non è ancora la software house che conosciamo oggi, ma un’azienda specializzata nella traduzione e nella localizzazione di videogiochi importati. CD Projekt si fa le ossa per anni, e inizia a calpestare terreni fantasy curando l’edizione polacca di un cult come Baldur’s Gate. Reami perduti, sotterranei in rovina, boschi minacciosi e la profondità di un grande videogioco di ruolo. In CD Projekt scatta la scintilla. Quel mondo così cupo e sinistro ammalia i due ragazzi cresciuti nei mercatini di Varsavia. Iwinski e Kicikski fondano CD Projekt RED, costola dell’azienda specializzata nello sviluppo di titoli originali fatti in casa.
Il logo simbolo dello studio? Un raròg, un demone infuocato con le fattezze di un falco. Una creatura della mitologia polacca considerata un portafortuna. Roba che Geralt di Rivia forse avrebbe fatto a pezzi senza troppi scrupoli. Infatti era scritto nel destino che le ali del raròg avrebbero presto solcato le terre del Continente, visto che per il loro primo videogioco i ragazzi di CD Projekt RED decidono di adattare il romanzo che sta facendo impazzire la Polonia. È il loro Signore degli Anelli. E Geralt il loro Aragorn imbastardito dalla vita.
Ma prima bisogna chiedere al baffuto signore burbero i diritti per farlo. Sarà più facile del previsto, perché stando alle cronache Sapkoswki non era molto lucido al momento della firma del contratto. Qualche bicchierino di troppo gli fece letteralmente svendere la sua creatura accettando un compenso ridicolo (8500 euro).
CD Projekt gli propose anche una percentuale sulle vendite, ma l’autore rispose in modo sprezzante dicendo: “Diritti? Questo gioco non avrà profitti, datemi questo soldi ora e buona fortuna”. Se ne pentirà amaramente. E infatti per tantissimi anni Sapkowski ha sempre parlato con distacco del successo dei videogiochi, parlandone con un misto di disprezzo e di amarezza.
Però, anche se forse il papà di Geralt non lo ammetterà mai, è grazie alla splendida trilogia di CD Projekt Red che The Witcher diventerà un fenomeno pop. Merito di tre videogiochi che alzano di continuo l’asticella delle proprie ambizioni. Il primo The Witcher, pubblicato nel 2007 dopo 4 anni di lavoro, ci mette subito nei panni di uno strigo senza memoria, ottimo pretesto per rendere il gioco fruibile anche per chi non conosceva i libri.
L’azione è curata nei minimi dettagli, coinvolgendo maestri d’armi ed esperti di combattimento i cui movimenti vengono riprodotti in motion capture. Ma la bellezza di The Witcher non è solo nei mostri fatti a pezzi. No.
La profondità del gioco è tutta nelle scelte del giocatore. Veri e propri bivi morali che definiscono l’etica dello strigo.
Queste libertà di scelta ti fanno davvero sentire parte di un mondo verosimile, e infatti è con The Witcher 2 – Assassin of Kings, pubblicato nel 2011, che il brand fa il grande salto al tavolo dei grandi. Il gioco ha una portata epica strabordante. Racconta di intrighi, giochi di potere e discriminazioni sociali nello stesso anno in cui Game of thrones faceva cose simili in tv. Il tutto con una qualità dei dialoghi che farebbe impallidire anche George Martin. Il mondo di Geralt va oltre la semplice caccia su commissione, ma si connette a una realtà cruda e spietata, in cui ogni giocatore si sente ago della bilancia per le sorti di un regno intero.
L’apice viene toccato da quel capolavoro meglio noto come The Witcher 3 – Wild Hunt. L’Endgame di Geralt di Rivia. L’ultimo atto di un’epopea travolgente e appassionante. Affari di cuore, triangoli amorosi, mentori riluttanti al fianco di allieve volenterose e una marea di quest secondarie in cui vieni sempre messo alla prova. Ecco, la saga di The Witcher ci ha insegnato soprattutto una cosa: vivere significa scegliere. Ci ha insegnato a cogliere l’attimo tra orrori e meraviglie, a vivere gustando panorami mozzafiato e pinte di birra con pochi fidati amici, perché là fuori il mondo non ammette il lusso del futuro. The Witcher è un gioco che vive anche di istinto e di sensazioni. Una meravigliosa esperienza in cui la tua coscienza è l’unica bussola per orientarti in un mondo sconfinato. Che sia nel fango dell’ultima bettola o nei patinati palazzi del potere, The Witcher ti fa sempre la stessa domanda: “Chi sono i veri mostri?”. La risposta non è là fuori, ma sempre e soltanto dentro di noi. Più o meno all’altezza del ciondolo del lupo bianco.
Witcher is coming
Con tutto questo ben di Dio alle spalle, era ovvio che le serie tv non sarebbero state a guardare. Soprattutto dopo che Game of Thrones aveva abdicato. Allora ecco Netflix che si sfrega le mani, sente l’odore del sangue come fanno i cacciatori con le prede e si lecca i baffi. Nel 2019, quattro anni dopo l’uscita di Wild Hunt, mentre molti giocatori stanno ancora tendando di finire quel gioco mastodontico, ecco arrivare la prima stagione di The Witcher.
Però: colpo di scena. Nessun riferimento diretto ai videogiochi. L’unico punto di riferimento sono i romanzi di Sapkowski. La grande rivincita del vecchio burbero che aveva svenduto la sua creatura.
Per Geralt di Rivia viene scelto Henry Cavill. I fan insorgono: troppo giovane, troppo belloccio, troppo Superman. E invece l’attore dimostra di essere un cultore della saga: conosce i libri come le sue tasche ed è un videogiocatore duro e puro. Ma uno sincero, non un poser come si fa su Instagram. Così ci regala un Geralt credibile, granitico, impassibile ma non disumano. E soprattutto con una voce roca che ricorda tantissimo quello del videogioco senza mai sembrare un’imitazione fastidiosa. Per Yennefer e Ciri, invece, ecco Anya Chalotra e Freya Allan, due sconosciute a cui vengono affidate due versioni giovani e acerbe di personaggi tutti da scolpire.
Questo perché con The Witcher Netflix ha davvero trovato il suo Game of Thrones. Nel senso che si è garantito un lungo futuro glorioso sulle strade del fantasy medievale sporco e realistico. Sì, ci saranno almeno cinque stagioni. Se tutto va bene forse persino sette.
Per cui, dopo aver letto e giocato con Geralt, adesso ci aspettano tante serate sul divano in cui chiederci ancora una volta chi diavolo siano i veri mostri. Una cosa è certa: quel burbero signore starà sicuramente ridendo sotto i baffi. Ora che tutti siamo ammaliati dalla sua creatura svenduta ma dal valore inestimabile.
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!