Un fantasma che non si cattura. Un’ombra che non si definisce se non tramite due occhi di ghiaccio. Anche il nome non è quello di un uomo. Iconico e sfuggente, Diabolik, il personaggio creato dalle sorelle Giussani nel lontano 1962, ha sempre avuto in sé tutte le caratteristiche per comparire sul grande schermo. Perché è un personaggio fatto della stessa sostanza del cinema. Mentre la sua avventura editoriale prosegue ininterrotta da più di sessant’anni, solo due registi hanno provato a portare questa enigmatica figura al cinema. Il primo è Mario Bava, che ha realizzato un film di piena follia pop art psichedelica nel 1968, un cult che però con delle atmosfere crime e oscure del fumetto non aveva poi tanto. E infine, i Manetti Bros., che nel 2021 iniziano la loro trilogia, pronta a concludersi due anni dopo con Diabolik Chi Sei?, adattando in maniera fedele il materiale originale. Nello stile, nell’estetica, nel linguaggio.
Una scelta sicuramente rischiosa, che attira facilmente criticità e qualche ostacolo di troppo, specie per un pubblico abituato a ben altri tipologie di spettacolo, ma che dimostra quanto il lavoro dei Manetti Bros. sia ragionato e figlio di una precisa scelta. Quella di adattare un fumetto che, nel corso di quasi mille albi pubblicati, ha cambiato poco, pochissimo, rispetto alla sua natura originaria.
Adattare un fumetto italiano
Ci sono due modi di adattare un fumetto. Il primo: prendere i personaggi e inserirli in una nuova storia, usarli come metafore di un tema o di una visione, espandere la loro mitologia narrativa e farli funzionare in un altro contesto. L’altro, invece, è cercare di replicarne il linguaggio attraverso un altro medium, come quello del cinema, incastrando tutte le caratteristiche del materiale originale all’interno di un’altra forma artistica, e quindi di un’altra grammatica. Arrivati nel 2023, con un decennio definito dall’enorme successo dei cinecomics, siamo ormai abituati all’uno e all’altro, tra universi condivisi (Marvel e DC), ennesime riproposizioni di personaggi consolidati (Batman) ed esperimenti più legati alla forma (Sin City, Scott Pilgrim vs the World).
Ma se un nuovo film di Spider-Man ormai ci sembra ordinaria amministrazione, diverso è il discorso per un personaggio tratto da un fumetto italiano. Forse per una questione di pregiudizio culturale che ci ha abituato nei decenni a considerare i fumetti italiani dei semplici “giornaletti”, considerandoli di fascia minore rispetto alle controparti oltreoceano, l’arrivo di un cinecomic tricolore è salutato con ambiguo scetticismo, se non proprio con indifferenza. Il che è davvero un errore che il pubblico compie nei confronti di sé stesso, dato che il nostro bagaglio di prodotti culturali non ha davvero nulla da invidiare a nessuno.
Diabolik è un personaggio fieramente e tipicamente italiano. Sotto la patina del thriller e del crime, si nasconde un universo che non potrebbe funzionare in altro modo. A partire da quell’immaginario ancorato a un look tipicamente anni Sessanta, sino alla costruzione dell’identità dei personaggi, passando per i nomi italiani e i cognomi francesi, Diabolik è intriso di un fascino tutto italiano che lo rende unico nel suo genere, probabilmente più di altri personaggi storici dei fumetti nazional-popolari. Il titolo ideale per dare vita a una trilogia cinematografica.
Questione di stile
Mantenere i personaggi o mantenere le caratteristiche che hanno reso il fumetto memorabile. La trilogia di Diabolik è stata realizzata scegliendo la via più impervia, fedele e allo stesso tempo complessa. Ma anche la più pura possibile. Perché Diabolik vive di alcune regole narrative tutte sue, in un universo particolare che funziona quasi unicamente grazie al ritmo di lettura e all’unione ragionata tra testo e disegno, tra balloon e vignette. Significa che le storie con protagonista il Re del Terrore, una volta uscite dai ranghi della loro grammatica, rischiano di sciogliersi come neve al sole. Al lettore, di solito, specialmente per gli albi più storici in cui la polvere del tempo si è adagiata più del previsto, è richiesta una necessaria e fortissima sospensione dell’incredulità, che deve travalicare le varie ingenuità, mettendo l’intrattenimento prima della logica, evidenziando il mistero sul personaggio anziché renderlo umano.
I film dei Manetti Bros. portano sul grande schermo le stesse trame che potremmo considerare oggi davvero démodé, specialmente per un pubblico contemporaneo abituato a ben altre tipologie di narrazioni e di messa in scena. Eppure, proprio in questa scelta sulla carta così anti-commerciale (nel senso di contraria al senso di marcia di questo tipo di produzioni), si nasconde la vera essenza del personaggio di Diabolik. Perché togliendo questi elementi, modernizzando il personaggio, se ne toglie tutto il fascino. Ecco allora che quando parliamo di cinecomic italiano lo diciamo in senso puramente letterale: non un’operazione che strizza l’occhio a cinematografie internazionali, ma un prodotto fiero della propria italianità, anche a costo di essere incompreso o inciampare sulla visione del tempo.
Una trilogia d’autore
Come se non bastasse, si aggiunge la scelta di far dirigere una trilogia (back to back, tra l’altro, un’operazione produttiva che non si vedeva dai tempi di Smetto quando voglio e che in Italia non siamo abituati a trovare con questa facilità e fiducia) ai Manetti Bros., che di un certo stile ne hanno fatto un’impronta autoriale. Coppia di registi perfetta per trasportare lo stile del fumetto che, in quest’occasione, combacia con il loro, composto da un certo amore per il cinema dal basso, low budget ma ricco di idee. La colonna sonora di Pivio e Aldo De Scalzi trasporta la dimensione filmica a sessant’anni fa, omaggiando e recuperando certe atmosfere dei poliziotteschi italiani. La recitazione teatrale e lontana dall’iper-realismo rende i personaggi delle figure atemporali, disumanizzandoli e quindi mettendo in scena la finzione stessa della storia.
Troppe scelte estreme per non risultare pienamente consapevoli. Troppa consapevolezza per non poter definire la trilogia di Diabolik come un’opera autoriale, perché basata su scelte legate allo stile e alla fedeltà dell’originale. Se mai ci dovesse essere un’altra incarnazione cinematografica di Diabolik, sarà sicuramente diversa da quella realizzata dai Manetti. Che questa maniera di costruire una storia (composta da perfetto trittico che parte dal mito e poi scava nel passato del protagonista) possa far alzare qualche sopracciglio e scatenare scetticismo nel pubblico è indubbio e normale. Ma dimostra anche quanto sia possibile realizzare un cinecomic tutto italiano, fieramente ancorato alla propria provincialità. Questo è stato solo un primo importante passo di quello che – speriamo – possa essere un lungo percorso, nonostante alcune zone d’ombra. Ma d’altronde, stiamo parlando di cinema e fumetto. Non possiamo fare a meno di giocarci, con l’ombra.
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