Ragionarci oggi sarebbe quasi superfluo: la figura del serial killer, nella sua macabra e metodica deriva criminale, rappresenta uno degli spunti di maggior fascino per la cultura pop. Non sorprende che il true crime sia tanto in auge tra documentari e podcast, vista l’enorme attenzione (mediatica e non) da sempre riservata a quegli individui capaci di macchiarsi di atti orrendi al punto da farne una prassi priva di reale significato. Gli ultimi trent’anni non hanno fatto altro che alimentare questo senso di estrema curiosità mista a orrore. Sarebbe interessante osservare come molte figure di dubbio valore morale abbiano visto crescere il loro fascino di pari passo all’evoluzione dei mezzi di comunicazione.
Dalla cultura pop ai mass media, i racconti sui serial killer hanno conquistato un’importante fetta di mercato, ma pochissimi hanno dedicato parte integrante del loro lavoro (o della loro arte) a esplorare gli abissi più oscuri della devianza umana. David Fincher non ha soltanto costruito la sua carriera sull’analisi del killer, ma ha completamente cambiato il modo di approcciarsi all’argomento.
Autore tanto metodico e maniacale nella messa in scena quanto l’assassino per i suoi delitti, questo regista è stato (e forse è tutt’ora) l’unico rappresentante di una pura poetica dell’omicidio nel mondo della settima arte. Quello di Fincher non è mai stato soltanto un kink di deriva autoriale, ma un interesse costante, maturo e ispirato nel cogliere le reali sfumature di qualcosa che sfugge a un primo sguardo. Dagli inizi della sua carriera con Seven, fino a oggi con l’uscita di The Killer su Netflix, l’autore e regista ha usato il cinema come mezzo per affrontare quesiti importanti, pungenti come quelli che affliggono e intrigano moltissimi spettatori.
Ma non solo: ogni pellicola ha rappresentato un passo preciso verso la giusta direzione, un nuovo elemento aggiunto a un dialogo che mira ancora a trovare le giuste risposte. Quell’ossessivo desiderio di verità tipico del true crime si fa per Fincher travolgente desiderio di scoperta. E proprio attraverso vari step evolutivi, tanto nella resa scenica quanto nella comunicazione e nell’analisi del killer, il regista ha costruito opere uniche nel loro genere per svelare, attraverso ciascuna di esse, le deviazioni più recondite della mente umana.
L’ascesa
Era il 1995 quando il Fincher reduce dalla delusione del suo debutto con Alien 3 si tuffava in un’avventura da lui voluta, cercata e costruita in ogni minimo dettaglio. Lontano da dettami produttivi e serrato sui ritmi di lavoro, affascinato com’era dall’idea di legare la furia omicida di un uomo alla (ri)trattazione teologica, il regista ha così potuto raccontare la sua personalissima versione del serial killer. John Doe in Seven rimane ancora oggi una delle versioni più acute, disturbanti e crude dell’assassino cinematografico: un personaggio complesso e indecifrabile, costruito delitto dopo delitto, cadavere dopo cadavere. Una mente tanto lontana dalla reale follia priva di controllo che la visione comune assocerebbe all’omicida da poter mettere sotto scacco chiunque; anima senza Dio che in nome di Dio si è fatta carnefice contro i peccati capitali. Seven è stato un film epocale non tanto per la sua struttura, che ha sicuramente permesso di ammirare le qualità tecniche di Fincher, ma soprattutto per l’audacia con cui venivano ricostruiti gli omicidi, tra simbolismi intramontabili e incredibili modus operandi.
Il lavoro compiuto da Fincher e soci ha permesso di ottenere un climax leggendario grazie allo stesso plot del film: tutto di ogni scena del crimine si legava alla mente dell’assassino, delineandone particolari e deliri. Seven è stato uno dei primi thriller a includere attivamente lo spettatore come responsabile dell’azione e non come semplice testimone. Il motore delle vicende e di John Doe, nella sua follia, si rivela la ricerca di una verità spasmodica e costante, sia essa da parte della polizia o del pubblico. Nel suo primo, grande film David Fincher non si interessa all’eventuale abisso dell’etica, ma ad avvicinarsi a quella psiche che molti non oserebbero neppure scrutare da lontano.
Così facendo, il regista ha ottenuto un duplice risultato – il primo della sua neonata poetica: da una parte, offrire una prospettiva diabolica e innovativa dell’assassino; dall’altra, palesare attraverso pallidi riflessi di follia la fallibilità di chi cerca costantemente risposte. In Seven coesistono orrore e metodo nel raggiungere una verità oscura e brutale, ma lo spazio principale è occupato da una sola figura che si erge sopra gli altri non perché segua lo stereotipo del male, ma perché più arguta nel cogliere il senso profondo della propria follia.
Lo sviluppo e il metodo
Conseguentemente agli orrori di cronaca e le stimmate di artista del genere dopo il successo di Seven, l’arrivo di Zodiac ha rappresentato il primo punto di svolta nel processo creativo e autoriale di David Fincher. Alla rabbia e all’orrore istintivi della sua precedente creatura, il regista sceglie di contrapporre la frustrazione in un interessante analisi comunicativa. I media, complice il periodo di transizione dell’America durante l’uscita del film, hanno preso il centro della scena e giocano un ruolo fondamentale nella “costruzione” del killer: osservando con attenzione l’impatto che una figura così ingombrante possa avere sul mondo e sulla cultura odierni, il regista decide di esaltare ogni atto criminale come notizia per costruire intorno a una figura quanto mai sfuggente un complesso gioco di ombre. Attraverso un’epopea che sembrerebbe attestare la superiorità prima e la fallibilità poi del killer seriale, Zodiac non ha voluto raccontare l’orrore del killer ma mostrare la prospettiva di chi si è ritrovato ad averci a che fare.
Fincher ha spinto con forza il proprio dialogo verso la ricerca della verità, elemento fondamentale nelle sue opere, ma ha focalizzato la propria attenzione sulla sfera pubblica e sull’importanza della verità in un contesto in cui le informazioni circolano costantemente. Non a caso, dopo qualche anno, il regista avrebbe girato The Social Network, a completamento di questa sua digressione comunicativa. Così come non è un caso che il film successivo sia stato Millennium – Uomini che odiano le donne: un ulteriore approccio, questa volta lontano dai clamori ed estremamente più pragmatico, alla figura dell’assassino; un’opera che centellina l’osservazione partecipata per scrutare con gelida freddezza l’azione.
Eppure, nella sua costante ricerca di un contatto ancora non avvenuto tra la prospettiva interiore del deviante e quella della sfera pubblica, la definitiva sintesi del metodo è giunta con Gone Girl – L’amore bugiardo. Un passo forse sottovalutato in questa poetica, ma che attraverso uno sguardo maggiormente ancorato alla sfera intima e al contesto femminile è riuscito a porre un’attenzione diversa sulla deriva criminale. Una banalità del male che si fa semplice e amorale, che anzi acquisisce sempre più senso collegando ogni azione indesiderata alla sua assurda conseguenza in un gioco di prospettive in cui pubblico e privato si contendono la verità.
L’apice
L’arrivo di Mindhunter su Netflix, fra le produzioni più imponenti e intriganti mai partorite dalla piattaforma, ha permesso a Fincher di affondare nuovamente nell’abisso della mente umana, sfruttando finalmente un approccio analitico agli studi di devianza e alla caratterizzazione del serial killer. Un dream job, vista la sua carriera, forse proprio per questo così meticolosamente costruito da appetire enormemente al pubblico di genere. Mindhunter è riuscito a non focalizzarsi sulla psicologia del killer, dando definitivamente respiro alla propria prospettiva parlando della psiche dello spettatore. Con questo piccolo show, David Fincher ha potuto analizzare il modo in cui tutti siamo attratti o repulsi dalla devianza e dalle sue strane derive. In questo senso, il lavoro svolto in Mindhunter sul tema lo rende forse la produzione più consapevole del regista – quella che si approccia alla figura dell’omicida nel modo più congeniale al suo stile.
Le investigazioni continue, le interviste meticolosamente ricostruite con diverse figure di riferimento per il mondo del crimine, sono tutti strumenti che hanno alimentato in Fincher un personale commentario, strutturando una sorta di saggio accademico sulla natura dell’assassino: i killer della serie appaiono sempre in controllo, mai realmente deboli, quasi come giocassero un gioco a cui gli altri non potrebbero neppure partecipare. In Mindhunter l’autore ha rappresentato con astuzia la debolezza dell’uomo comune, timorato e impreparato, che solo attraverso un altro assassino può ottenere i mezzi per tentare di comprendere la vera natura del “male”. Per la prima volta, almeno in maniera così diretta, l’autore ha riconosciuto che il potere di ciò che vediamo e ci affascina non risiede solamente sull’effetto che il killer o i suoi atti possano avere su di noi, bensì sull’istinto primordiale della nostra mente di trovare risposte all’inspiegabile. Basta questa cupa danza tra documentazione e psicanalisi a raggiungere l’apice della poetica fincheriana.
Il killer (oggi?)
Vista la chiusura inconcepibile della serie Netflix, l’arrivo di The Killer (qui potete leggere la nostra recensione) rappresenta per il mondo di oggi una sublimazione delle opere precedenti – con un piglio decisamente più diretto e forse meno autoriale, ma comunque profondo dal punto di vista analitico. Il killer di Michael Fassbender si allontana subito dalle particolarità degli affascinanti mostri di Mindhunter: calcola tutti i dettagli, le variabili, le statistiche prima di eseguire gli omicidi su commissione, ma condivide delle caratteristiche nel modo in cui si approccia all’atto criminale. Fassbender ricorda nei suoi monologhi una versione deviata dell’Edward Norton di Fight Club o della Rosamund Pyke di Gone Girl, sicuro e meticoloso com’è. Ma proprio come il regista, avviluppato in un vortice di rimandi tecnici, il dialogo sulla figura dell’assassino finisce per prendere una svolta inaspettata fra i vincoli di un’inaspettata fallibilità.
Forse proprio in questo tema va trovata un’importante evoluzione (forse l’ultima) del percorso di Fincher sulla trattazione del killer. Per un autore che aveva cominciato il suo percorso parlando di assassini diabolici e figure sfuggenti, scrutare negli occhi un “semplice” agente, dannato e dannoso, appare quasi l’accettazione di una realtà umana inconfutabile. In questi termini, il killer per David Fincher continua senza dubbio a rappresentare la figura più affascinante, ma il suo percorso di avvicinamento della mente omicida alla realtà comune sta accorciando le distanze. Difficile stabilire se ciò sia dovuto alla crescente informazione sul tema o alla perdita di un po’ di mistero: l’unica certezza inconfutabile è rappresentata dal fatto che, in un mondo in costante evoluzione come quello del finale di The Killer, i demoni imperturbabili di Fincher sono soltanto gli echi degli Dei che si sentono di essere. L’ultimo messaggio dell’autore potrebbe quindi scoprire definitivamente le carte, rivelando l’unica verità inconfutabile: gli assassini sono incredibilmente più vicini agli uomini, con i loro conflitti e i loro impulsi che eludono la ragione.
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