Il mondo letterario creato dalla Signora del giallo, Agatha Christie, è uno degli universi narrativi più adattati di sempre tra il grande e il piccolo schermo. Non sono mai mancati approcci audaci o particolari soluzioni negli anni, con produzioni che hanno segnato l’immaginario collettivo e ispirato numerosissime opere successive. In questo senso, il lavoro della Christie può certamente dirsi pionieristico non tanto per tematiche, quanto per struttura e stile: il murder mystery claustrofobico, catturato e concentrato sempre entro spazi limitati o entro quattro mura, vissuto attraverso l’approccio intricato e complesso di magnifici indagatori come Hercule Poirot, è riuscito attraverso la forza della narrazione e l’ordine preciso di elementi mai prolissi o lasciati al caso ad avvicinare praticamente chiunque a questo affascinante genere.
Nonostante l’intramontabile carisma di David Suchet o delle grandi operazioni commerciali di stampo britannico, le opere della Christie si sono presto trovate confinate ai soli contesti televisivi nonostante l’affetto degli appassionati.
Dopo anni di mancanze e titubanze, alternando produzioni più o meno fallaci ad altre brillanti e più o meno riuscite, Kenneth Branagh è stato il più tenace nel prendere le redini di un grande progetto cinematografico che riportasse Poirot, in particolare, alla ribalta del grande pubblico. Con ben tre lungometraggi all’attivo, l’attore e regista britannico ha sfruttato contesti e dinamiche squisitamente moderni per trasporre le più grandi opere della Christie sotto atmosfere diverse.
Il processo adattivo e cangiante scelto da Branagh per il suo Poirot non si è limitato a percorrere pedissequamente le opere originali, ma ha poggiato le basi per un percorso a lungo termine, capace di coinvolgere gli spettatori di oggi e di reggersi sulle proprie gambe con rispetto per il passato e uno sguardo curioso e deciso verso il futuro.
Nuove idee per vecchie storie
Pur sfruttando in qualche modo il trend degli adattamenti dedicati ai detective più apprezzati dell’era moderna, la trilogia di Branagh si colloca in una posizione nettamente distante dalle varie produzioni legate a Sherlock Holmes. La differenza fra le due figure non è meramente narrativa, anzi, rivela le prospettive divergenti di epoche molto differenti tra loro. In questo senso, Hercule Poirot è forse la figura più moderna e contemporanea che si possa desiderare per raccontare chi cerca la verità: ricalcando con arguzia e vigore l’ossessione freudiana, Poirot incarna in tutto e per tutto l’intellettuale del ‘900, con i suoi pregi e i suoi difetti. Le rappresentazioni dei classici televisivi e non, compresa la memorabile interpretazione di Suchet del personaggio, portavano in scena un uomo estremamente metodico che si trovava spesso a fare i conti con le fragilità umane. Fragilità che, spesso, celava per sé dietro acute osservazioni e potenti arringhe finali.
Per un perfezionista come Kenneth Branagh, trovarsi di fronte a opere di questo tipo ha rappresentato l’occasione perfetta per mostrare non soltanto le proprie qualità attoriali, ma soprattutto quelle registiche. Fra i più celebri e apprezzati professionisti di derivazione shakespeariana, Branagh è riuscito a inserire anche Poirot fra i grandi ruoli “teatrali” che hanno segnato la sua carriera. Il processo cominciato con Assassinio sull’Orient Express, soverchiato dai paragoni con il classico di Sidney Lumet ancor prima della sua uscita, ha mostrato sin da subito le sue intenzioni. Poirot ha sempre messo al primo posto la deduzione, l’analisi del mondo sublimata attraverso l’ego per ottenere la verità; nel contesto rappresentativo moderno, quel Poirot apparirebbe presto slegato dal mondo concreto, vittima di se stesso e delle proprie mancanze.
In un certo senso, Branagh ha trasmesso anche questo arguto distacco con la propria interpretazione, ma l’ha fatto conferendo al personaggio una carica drammaturgica che gli ha donato nuova vita: mantenendo l’ispirazione classica di ogni racconto, studiando nuove idee per caratterizzarne i personaggi, il Poirot di Branagh è reso sì quasi supereroistico nei suoi talenti, ma soprattutto umano, capace di mostrare emotività, empatia e tenacia ben diverse da quelle mostrate in passato dal personaggio.
Il passaggio al confronto
Dopo aver superato lo scoglio iniziale con un discreto successo, l’approccio ad Assassinio sul Nilonon è cambiato molto rispetto al suo predecessore. Con i racconti della Christie mantenuti abbastanza fedelmente nella loro struttura intrinseca e nella loro sfera tematica, il Poirot di Branagh ha potuto cominciare a sperimentare: l’utilizzo di espedienti prossemici e dinamici attraverso cui enfatizzare il contatto o il contrasto fra i personaggi ha permesso soprattutto nel secondo film, forse il meno impattante nel suo complesso, di notare le intenzioni chiare del regista con questo progetto ad ampio raggio.
L’adattamento delle opere della Christie non è solamente mirato all’approccio commerciale e popolare, bensì a raccontare temi intramontabili con una carica moderna che ne possa amplificare il messaggio anche dinanzi a nuovi tipi di pubblico. Per questo, anche sforzandosi, il tentativo di confrontare il lavoro di Branagh con il contesto delle trasposizioni originali dei racconti su Poirot lascia presto il tempo che trova. Per quanto la sferzante carica narrativa di un’autrice indimenticabile non sia minimamente pareggiata sul grande schermo, specie in termini di concretezza ed essenzialità, un approccio simile reggerebbe a stento l’impatto con un pubblico abituato e costantemente spinto a destreggiarsi senza difficoltà tra stimoli e informazioni.
Probabilmente non si parlerà mai di un Poirot “digitale”, ma di certo l’approccio “analogico” alle opere e al mistero della Signora del Giallo è ben diverso rispetto a quello sintetizzato da Branagh nei suoi lavori. Ed è proprio qui che il lavoro svolto dal regista rivela la sua duplice natura: questa trilogia non è solo la rappresentazione di un processo creativo, ma anche dell’intenso percorso di emancipazione di un’opera da quegli elementi che la ancorano al proprio tempo. Condivisibile o meno che sia, da un punto di vista meramente produttivo non esiste niente di meglio per prospettare un futuro roseo per un franchise, mescolando appetibilità e nostalgia a dinamiche che siano al passo coi tempi.
Stare sul pezzo, ma osare con coraggio
Con Assassinio a Venezia (qui la nostra recensione) si completa il processo di emancipazione iniziato da Branagh sei anni addietro, o quantomeno si raggiunge un punto di svolta importante. Per la prima volta, i cambiamenti all’opera originale appaiono evidenti e marcati, sia nello stile, sia negli elementi narrativi. Il plot principale, per struttura e personaggi, resta lo stesso, ma tutto sembra richiamare a un’opera molto diversa (e forse, per questo, anche più divisiva). Branagh adatta in modo estremamente personale La Strage degli Innocenti, portando l’orrore e il soprannaturale davanti allo sguardo di un Poirot sempre più umano, sfaccettato e profondo. Il detective più infallibile del mondo viene obbligato a mettere in discussione se stesso e ogni sua credenza, e proprio per questo rischia di perdere ogni cosa dinanzi alla propria umanità.
Che Branagh abbracci il lato più intimo del suo protagonista, cercando di esplorarne ogni sfaccettatura, permette agli spettatori di osservare da vicino il personaggio, legandovisi come forse mai prima d’ora attraverso l’esaltazione della crisi. Assassinio a Venezia non è altro che la sublimazione del Poirot uomo, partito nel primo film come figura iconica dai poteri straordinari e perpetuamente decostruito dal turbamento e dal dolore di chi si trova a camminare di fianco alla morte ovunque vada. Osando senza paura con le inquadrature, mettendo a dura prova i propri attori, Branagh porta la narrazione del film su un altro livello, raggiungendo il duplice risultato di render giustizia a un’importante racconto sulla ricerca della verità mantenendosi fedele al suo spirito intrinseco.
Nell’eventualità di altri sequel, Branagh ha dimostrato di poter spaziare senza timore raggiungendo obiettivi sempre più alti. Ciò è sintomatico di uno sviluppo diegetico costante e parallelo a quello del suo Poirot, figura di grande valore costantemente spinta al mutamento dinanzi alla rivelazione dei lati più oscuri dell’uomo. Vacilla, claudicante e incerto, il protagonista di Branagh: Hercule Poirot cerca disperatamente qualcosa in cui credere, celandosi e celando a chi osserva quei piccoli dettagli troppo pesanti da rivelare, e questo è forse il particolare che più di ogni altro affascina lo spettatore moderno. Con questi film, ben lontani dall’essere dei capolavori di genere, Kenneth Branagh dimostra di aver trovato il giusto equilibrio tra l’istinto commerciale e lo spirito di Agatha Christie, riuscendo a inserire il messaggio delle sue opere in un dedalo di atmosfere affascinanti, intrighi e inganni che in qualche strano modo sembrano sempre più familiari.
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