Tra i vicoli velati dalla nebbia di una Venezia che sembra trattenere il fiato, avvolta nell’oscurità e nella bruma esoterica, si muove come un’ombra una figura in un mantello di tenebra. Le spalle, curvate sotto il peso del mistero, sono coperte da drappi scuri, mentre un cappuccio avvolge il volto in una maschera di porcellana bianca, evocando spettri di antiche feste.
Il vento s’inalbera, portando con sé il lamento sinistro di un violino che piange nell’aria plumbea, o forse è l’urlo di un’anima perduta? Le acque si increspano, come se i canali volessero sussurrare segreti sepolti da secoli.
All’orizzonte compare una gondola, scivolando silenziosa come un’ombra, preceduta da una luce tremolante, come lo spirito di un folletto notturno. Impossibile discernere i contorni sfumati tra il mondo dei sogni e la realtà avvolta nel manto dell’incubo. Il fruscio dei rami predice un singhiozzo, un lamento. Chi si cela là in fondo? Suoni, bisbigli, sospiri risuonano, eppure nessuna presenza umana si profila.
Chi si nasconde dietro quella maschera d’avorio? E a chi apparteneva l’ultimo, soffocato, grido mortale, che si è perduto nell’abbraccio freddo della notte? Ed ecco, distinti, giungono i passi. La sagoma si fa più nitida: un cappello alto, come la torre di un vecchio maniero, adorna la testa, mentre una penna danza su un taccuino di pelle consumata. Lo sguardo si alza, diretto verso di noi. Un paio di baffi ricci, come serpenti di fumo, spiccano sul volto segnato ma dagli occhi che scrutano l’abisso. “Qualcuno ha lasciato qui la vita, questa notte”, tuona con un accento francese distinto, come un eco di tempi ormai sepolti. “E io so chi è stato!”
E se pensate che questo possa essere l’incipit di un vecchio film gotico, magari sulla scia di racconti dell’orrore in stile Edgar Allan Poe, vi sbagliate. Ci sembra doveroso cominciare questa recensione di Assassinio a Venezia con un tocco più oscuro, poetico e romanzato per chiarire fin da subito che in questo terzo capitolo dedicato al Poirot di Kenneth Branagh, la musica è decisamente cambiata.
Genere: Giallo
Durata: 103 minuti
Uscita: 14 Settembre 2023 (Cinema)
Cast: Kenneth Branagh, Tina Fey, Michelle Yeoh, Kelly Reilly, Jamie Dornan, Camille Cottin, Riccardo Scamarcio
Trama: nel segno del gotico!
Tutto ciò che voleva il povero Hercule Poirot (Kenneth Branagh) era solo potersi godere la tanto agognata pensione. Dopo i provanti eventi avvenuti durante la crociera sul Nilo (Assassinio Sul Nilo, 2022), contraddistinti dai troppi ricordi e fantasmi del passato, il detective francese si è ritirato a pace e tranquillità nella bellissima Venezia del secondo dopoguerra. La trama di Assassinio a Venezia, però, ci anticipa che tutto questo è solo un calmo preludio prima della tempesta. Per quanto Poirot si sforzi di restare lontano da qualsiasi caso, persino il più blando, non può fare a meno di attirare delitti, complotti e misteri, quasi come se fosse una calamita. La realtà è che, in fondo, è nella natura dello stesso detective perdersi tra i ragionamenti, gli intrighi, gli “omicidi perfetti” ma che nascondono sempre qualche piccola falla. Un piccolissimo dettaglio da scovare e dal potere di far incrinare, e poi crollare, anche il più geniale ed elaborato dei piani.
Quando seguiamo un caso di Poirot non è l’identità dell’assassino a contare, quella è un plus, quanto il metodo adoperato dall’uomo. Il suo ragionamento che passo passo viene snocciolato di fronte ai presenti e noi, spettatori passivi, non possiamo fare altro che osservare, divertendoci a “collaborare” quasi come se fosse una partita di Cluedo, per poi essere destinati in qualsiasi caso comunque a perdere contro il grande investigatore. Ma si sa, anche i grandi possono avere i loro punti deboli.
In quanto uomo di ragione e scienza, Poirot non può certo credere a spettri, anime tormentate e veli tra un mondo e l’altro da attraversare. A tutto c’è una spiegazione logica, un trucco da svelare, anche quanto potrebbe sembrare impossibile. Ed infatti, nonostante il desiderio di stare il più lontano possibile dalla morte, l’invito dell’amica scrittrice Ariadne Oliver (Tina Fey) a partecipare ad una seduta spiritica la notte tra il 31 Ottobre e il 1 Novembre, in un vecchio orfanotrofio dove, nel periodo di peste, sono morti moltissimi bambini, adesso riadattato a palazzo dove a viverci, c’è la soprano Rowena Drake (Kelly Reilly) distrutta dal dolore per la perdita della figlioletta, si mostra una tentazione troppo invitante per non cedervi. Semplicemente per mettere a freno le fantasie su fantasmi, smascherando la famigerata medium Joyce Reynolds (Michelle Yeoh).
E, quindi, ha inizio una delle notti più lunghe per il detective, tra nenie infantili, tempesta in laguna e ben tre omicidi inspiegabili da risolvere, dove anche il fervente raziocino di Poirot verrà messo a dura prova.
Un cambio di direzione
In contrasto con le due precedenti trasposizioni, questa volta Kenneth Branagh opta per un’opera “minore” di Agatha Christie, l’oscura e meno celebrata Poirot e la strage degli innocenti (Hallowe’en Party), priva di precedenti cinematografici. Un regresso rispetto ai film del 2017 e del 2022? Nulla di più sbagliato! Non servono sotterfugi: Poirot è da sempre un’icona sia nella letteratura che sul grande schermo, e qualsiasi paragone risulta implacabile. Branagh, sebbene i suoi film siano sempre stati piacevoli e incalzanti, autentiche coccole cinematografiche (forse dal ritmo più televisivo) perfette per un grigio pomeriggio autunnale, davanti a una tazza di té fumante, non è mai riuscito a superare completamente la “prova”, soprattutto dal punto di vista interpretativo. Ma cosa accade quando Christie fornisce solo lo spunto e Branagh aggiunge il resto? Conquista una libertà d’azione più ampia, quasi priva di pressioni e aspettative, che solleva il Poirot del regista e attore britannico su un piano più personale, quasi originale.
Assassinio a Venezia si emancipa quasi del tutto dall’opera originale, e questa è la nota di merito più grande del film, nonché il suo punto di forza. L’evento catalizzante rimane sostanzialmente immutato: Joyce Reynolds ha la visione di un omicidio avvenuto nella casa dove si stanno preparando i festeggiamenti per Halloween, per poi essere ritrovata senza vita, affogata nella vasca della pesca alla mela. Nel libro, Joyce è solo una ragazzina, mentre nel film è una medium dal codice etico e morale assai discutibile. E così si aprono le danze per una processione di cambiamenti che non stravolgono del tutto l’essenza ultima del romanzo, ma offrono a Branagh la possibilità di sperimentare, di superare i limiti, di mettersi in gioco e, soprattutto, di infondere alla pellicola una nota più drammatica e gotica, che amplifica ancora di più quella sensazione di autunno e, soprattutto, regala un piacevole e innovativo brivido lungo la schiena.
Una nota di inquietudine inaspettata che distingue ancor di più l’opera dall’originale e, soprattutto, dall’atmosfera delle pellicole precedenti. Un thriller horror che non ha la forza di spaventare completamente, ma comunque sia è capace di suggestionare tanto lo spettatore quanto i suoi stessi protagonisti. Quali scherzi può giocarci la mente se messa nelle “giuste” condizioni?
Una Venezia stregata!
Il fiore all’occhiello di questo film è indubbiamente la Venezia notturna del secondo dopoguerra, la quale dona una naturalissima atmosfera di mistero ed esoterismo. Il suo contesto storico e le conseguenze, le ferite interiori e gli orrori vissuti che alimentano ancora i sogni di chi ha visto, subito o combattuto, si pone in contrasto all’estetismo magico della laguna. Kenneth Branagh cerca di creare un naturale collegamento psicologico con gli eventi del film precedente, dando una caratterizzazione più profonda, ancora più umana e fragile al suo Hercule Poirot.
Per quanto i tre film possano essere definiti degli stand alone, un po’ come i romanzi della Christie, al tempo stesso sapere del passato del detective ci aiuta a comprendere meglio le motivazioni e lo stato mentale di questo Poirot.
Il suo terrore a mettersi in discussione, ad osservare oltre il velo, a ritrovare la fede e, soprattutto, ad affrontare una volta per tutte non tanto i fantasmi di un castello quanto quelli di interiori. E questa dimensione tra l’incubo e l’onirico, un po’ sospesi nel tempo, muovendosi tra le calle quasi come se si fosse traghettati dallo stesso Caronte, concede al detective una sorta di giustificazione. Un Poirot a nudo per un Branagh finalmente in parte.
Inoltre, il contrasto tra bellezza e guerra, ci lascia subito percepire il senso di marcio e macabro decadente. Ci avvisa che in tutta quella meraviglia notturna da film, qualcosa di terribile si nasconde dietro le maschere in festa dei bambini, nei mantelli dei gondolieri, tra i cunicoli più scuri in cui è difficile guardare. Anime erranti che conducono verso una dimensione ultraterrena, stregata, spingendo i protagonisti a dubitare perfino di se stessi.
Sedute spiritiche, palazzi dal passato travagliato, la morte fresca di una vita che si è spenta nella disperazione che permea le stanze dai soffitti alti e l’umidità che fa cigolare le porte, gorgogliare le tubature, dipinge i muri di ombre oscure ed astratte, giocano un ruolo fondamentale per la percezione di chi osserva e vive il momento. La laguna in tempesta e la pioggia battente amplificano il senso di claustrofobia e panico – tipico poi dei racconti di Agatha Christie – all’interno delle mura “piangenti” del magnifico palazzo dal passato oscuro.
Sembra quasi di assistere alla messa in scena di un vecchio racconto dell’orrore, un penny dreadful dalle sfumature vittoriane. Indubbio il magistrale lavoro scenico per poter creare l’atmosfera perfetta, suggestionare e, siamo onesti, anche un po’ distrarre lo spettatore dalle solite ingenuità narrative.
Una formula vincente
Mai come in questo caso, è proprio il caso di dirlo, il contenitore è superiore al contenuto. Senza ombra di dubbio, parliamo di un film estremamente intrattenente e godibile; non a caso, la formula consolidata del comfort movie funziona particolarmente bene, così come ha funzionato anche in passato. Le pellicole di Kenneth Branagh legate al franchise di Hercule Poirot non chiedono di ragionare troppo, quanto più di farsi trascinare dagli eventi e dai ragionamenti del protagonista. Oltre che dagli attori. In Assassinio a Venezia il cast non ha nulla da invidiare rispetto alle pellicole precedenti, per quanto appaia leggermente meno coeso e più disperso nelle ali del castello. A spiccare su tutti è, indubbiamente, Tina Fey, l’unica ad avere un tono più deciso ed originale, meno piatto e monotono rispetto agli altri interpreti. Indubbiamente seguita da Michelle Yeoh e successivamente da Kelly Reilly. Molto più sullo sfondo gli altri personaggi, soprattutto quelli femminili, mentre quelli maschili completamente sotto tono.
Come abbiamo appena constatato, in questa circostanza, il passaggio verso un’atmosfera tendente più al thriller horror che al classico giallo, contribuisce ad un’immersione ancor più profonda, compensando una struttura narrativa fin troppo prevedibile. Il pubblico in sala non va sottovalutato, anzi. Il fruitore medio di queste pellicole, spesso, è un appassionato del genere e coglie al volo alcuni trucchi fin da subito.
Branagh semplifica ulteriormente le cose, anche perché, essendoci un distacco dall’opera originale, la sceneggiatura è per lo più inedita. Certamente, ciò che desideriamo è assistere al ragionamento, al modo in cui Poirot giunge alla soluzione del caso, ma prevedere fin dall’inizio chi sarà l’assassino non è esattamente un punto a favore. Troppo spesso ci troviamo di fronte a vere “coincidenze fortuite” piuttosto che a scoperte ponderate, mettendo più di una volta in discussione la sospensione dell’incredulità. Ma soprattutto, ancora una volta, si ripresenta il problema della risoluzione finale: il pathos.
Il momento in cui il detective svela le sue carte dovrebbe essere un culmine di emozioni e adrenalina, di attesa e ansia. Poirot dovrebbe farci sudare quel momento, rendere appagante la scoperta, esasperare la distanza che ci separa dall’indagare nell’oscurità fino alla rivelazione della verità; eppure, la rivelazione è sempre troppo affrettata, poco dinamica, priva di fascino. Come se Branagh perdesse ispirazione una volta giunto al finale, concludendo in gran fretta il terzo atto per dedicare qualche secondo in più all’epilogo. Questo inevitabilmente sminuisce il brivido del film che, oltre a “fare il suo dovere”, non riesce a spingersi oltre.
La formula del comfort movie è una certezza, e il cambio di atmosfera ha conferito quel tocco di novità fondamentale per infondere nuova vita al franchise. Tuttavia, inciampare nuovamente negli stessi errori lascia perplessi e con l’amaro in bocca, confermandosi come un limite che la pellicola, oltre a essere “un film da vedere se non si hanno altre alternative”, non riesce ancora a superare.
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La recensione in breve
Il capitolo più "oscuro" della saga cinematografica del Poirot di Kenneth Branagh si mostra essere il più maturo, consapevole e originale dei tre. La scelta di "emanciparsi" dai romanzi di Christie si rivela vincente. L'atmosfera più gotica, sullo sfondo di una Venezia esoterica, dona al film un gusto nuovo, più suggestivo, che spesso va a sopperire ad una scrittura "thriller" non troppo sorprendente ed a tratti prevedibile. Nonostante questo, il film è godibile e scorrevole, confermandosi il perfetto comfort movie della stagione autunnale.
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Voto Screenworld