Per girare un biopic servono registi vampiri. Autori che si nutrono delle vite degli altri. Anche perché, lo sappiamo, ogni film conduce all’eternità e attraversa il tempo come ogni creatura assetata di sangue. Però i registi-vampiri non sono tutti uguali. C’è chi si alimenta senza scrupoli e chi lo fa col giusto tatto. Pablo Larraín riesce a fare entrambe le cose. La differenza la fa tutta la vita che sta mordendo. Quando si tratta di figure storiche da riabbracciare con rispetto, Larraín si mette i guanti e ci regala una delicatezza rara. Per informazioni rivolgersi dalle parti di Jackie e Spencer, due ritratti femminili scrupolosi, rispettosi, empatici. Due film che proprio qui a Venezia hanno mostrato la profonda sensibilità di un autore interessato a rileggere figure chiave della Storia. Sempre viste da uno sguardo personale e imprevedibile come quello del regista cileno.
Questa volta, però, Larraín dei guanti non sa proprio che farsene. Perché si deve sporcare le mani col sangue del suo Cile. Una nazione che porta ancora addosso i segni di un passato doloroso. No, non servono guanti, perché si parla di Augusto Pinochet. Nella nostra recensione di El Conde vi racconteremo il drastico cambio di passo di Larraín, che con questo film squilibrato e pieno di spunti geniali passa dalla delicatezza alla furia senza controllo. Un terremoto che scuote il suo cinema e noi estimatori, perché purtroppo El Conde è stata la nostra prima delusione di questa 80esima Mostra del Cinema di Venezia. Come un vampiro sdentato che, forse, diventerà invisibile anche su Netflix, dove arriverà il prossimo 15 settembre. Non proprio l’habitat naturale per questa strana creatura.
El Conde
Genere: Horror satirico
Durata: 110 minuti
Uscita: 31 agosto 2023 (Festival di Venezia), 15 settembre 2023 (Netflix)
Cast: Jaime Vadell, Alfredo Castro, Catalina Guerra
Dittatori assetati
Peccato perché lo spunto iniziale del film prometteva grandi cose. Nell’universo surreale costruito da Larraín il dittatore Augusto Pinochet è un vampiro centenario. Un essere immortale che ha attraversato il tempo e lo spazio per arrivare imperterrito e inarrestabile fino ai giorni nostri. Dietro di lui, ovviamente, una lunga scia di sangue versato e cuori strappati. Il conte vive in una specie di esilio volontario nel profondo sud cileno, accompagnato da sua moglie, il fedele maggiordomo e i suoi figli assetati come lui. Non di sangue ma di eredità. Pinochet si trascina stanco nel suo arido regno decadente, perché ormai è stanco della vita eterna.
Almeno fino a quando una nuova creatura irrompe nella sua vita, scuotendolo da questo antico torpore. Fin dalle premesse è facile capire come El Conde si basi su un’allegoria di facile lettura, con Pinochet rappresentato come un mostro che ha svuotato il Cile di vita, divorando tutto con una ferocia disumana. Ed è come se Larraín si sia fermato a questo: alle bontà delle premesse. Perché dopo un ottimo prologo, El Conde gira attorno alle sue idee senza mai azzannare davvero.
Paletto spuntato
Ormai è chiaro: Netflix ha la buona abitudine di dare ai grandi autori grande libertà, lasciando loro carta bianca. Lo ha confermato Paolo Sorrentino, lo ha confessato Alfonso Cuarón, lo ha sempre sottolineato Martin Scorsese. Però, l’anno scorso (sempre qui a Venezia) abbiamo notato anche il lato oscuro di questa fiducia totale quando abbiamo visto Bardo di Iñárritu. Un film molto (troppo?) personale, senza controllo e senso della misura. Tutti problemi che affliggono anche El Conde. Larraín prova a costruire il suo omaggio in bianco e nero ai classici del cinema muto, citando sia la grammatica dell’espressionismo tedesco che le movenze teatrali dei mostri Universal (tra giochi di ombre, silhouette e spazi vuoti), ma non riesce ad andare oltre il divertissement fine a sé stesso.
Guardando questa satira innocua, che vorrebbe mordere ma riesce soltanto a graffiare ogni tanto, si ha la fastidiosa sensazione di un film più divertito che divertente, troppo compiaciuto della sua presunta sagacia. El Conde gira troppo a vuoto, frenato dal suo black humor zoppicante e dal suo gusto per il grottesco che procede a vampate. Insomma, al di là della forza corrosiva di alcune trovate (più visive che narrative), il film non trasuda rabbia, non ha ritmo e non apre davvero ferite nonostante tutto il sangue messo in scena.
Sangue annacquato
Eppure Larraín resta sempre Larraín. Ovvero un regista capace di ammaliare con le immagini. Se le parole stonano con dei dialoghi verbosi e troppo insistenti, El Conde dà il meglio di sé grazie a un paio di sequenze davvero potenti, dove i film si eleva (letteralmente) assieme a dei personaggi in volo. Sono attimi di pura poesia che si amalgamano poco e male col disegno d’insieme, ma che ci ricordano perché siamo tanto affezionati a questo grande talento. Un regista che con El Conde ci ha fatto percepire davvero il Novecento come qualcosa di passato e trapassato. Qualcosa di talmente vecchio e sorpassato da raccontare col filtro del mito. Un mito non da proteggere, ma da beffare, parodiare, rileggere come una ridicola farsa. Un esperimento anarchico riuscito a metà, perché El Conde sembra quasi un geniale cortometraggio diluito in un film. Come sangue annacquato incapace di soddisfare anche il più affamato dei vampiri.
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La recensione in breve
El Conde è stata la prima delusione di questa Mostra del Cinema di Venezia. Uno spunto geniale diluito con una satira poco graffiante e un black humor che funziona solo a fiammate. La sensazione è quella di un buon cortometraggio diluito in un film senza mordente.
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Voto ScreenWorld