“A volte può vedermi ancora ballare tra quei fiocchi“: le note di Danny Elfman che salgono e avvolgono un principe senza mani che cerca di dar forma ai ricordi. Se si dovesse scegliere una sequenza capace di racchiudere in pochi minuti tutto il cinema di Tim Burton sarebbe senza dubbio quella finale di Edward mani di forbice.
Uscito nel 1990, questo piccolo film capace di diventare tanto un cult quanto un film manifesto, racconta al pubblico tutto quello che il regista originario di Burbank ha cercato di raggiungere con le sue storie. In questa rivisitazione dark del mito della bella e della bestia, Tim Burton ha inserito la sua vicinanza alla figura del freak, il suo affetto per tutti coloro che vivono in una zona di stra-ordinarietà, che rifuggono tutto ciò che è considerato normale e, perciò, anonimo. Ma c’è anche l’impossibilità di coesistenza di questi due mondi: quello civile che non si è ribellato all’omologazione e quello di tutto ciò che non è ordinario.
Non c’è spesso un lieto fine quando Tim Burton cerca di raccontare di mondi opposti che si scontrano. Edward deve tornare nel suo castello e rinunciare all’amore della sua vita, Emily de La sposa cadavere si disperde nell’aria quando il suo amato torna alla dimensione che gli appartiene e persino Jack Skellington rischia di essere annientato quando prova a entrare in una realtà che non è in grado di percepire, ancora una volta, la sua straordinarietà.
La fase poetica di Tim Burton
Ancor prima di passare dietro la macchina da presa, Tim Burton è sempre stato attratto da un determinato tipo di storie. La figura del “mostro” è sempre stata centrale nel suo cinema e in molti film della sua “prima fase” è un concetto che torna. Una creatura diversa, un outsider con gli occhi carichi di meraviglia, che viene spinto fuori dal suo rifugio e costretto a tentare un approccio con un’umanità famelica e avida, che si nutre di ciò che non capisce finché quella stessa diversità non diventa un’arma, una minaccia.
E allora il mostro, proprio come avviene con la Creatura di Frankenstein, viene cacciato indietro, spinto dal fuoco dell’ignoranza a tornare nell’oscurità da cui proviene. Proprio la predilezione per questo tipo di personaggi e per questa struttura narrativa ha spinto Tim Burton ha inseguire una poetica precisa all’inizio della sua carriera. Sin da Pee Wee’s Big Adventurel’occhio della sua macchina da presa sapeva insinuarsi sotto ciò che veniva mostrato in primo piano: e se da una parte lo spettatore rideva delle avventure di questo protagonista tanto fuori le righe, dall’altra c’era quel serpeggiante senso di distacco dalla realtà, quella solitudine strisciante che correva sulla pelle del suo protagonista. La Lydia di Winona Ryder in Beetlejuice è un personaggio che, come tutto ciò che è interno a questo film, è costruito per essere grottesco, sopra le righe, comico in senso inatteso. Ma Lydia è anche una ragazza che si veste della sua diversità, un “mostro” che nemmeno la sua famiglia sa comprendere e che spesso abbandona a se stessa, obbligandola a comportarsi come se fosse più grande.
Se si guarda il Batman di Michael Keaton o il Joker di Jack Nicholson si possono trovare sempre quelle tracce di alienazione e nostalgia che rappresentano i temi ricorrenti nel cinema di Tim Burton e che proprio in Edward mani di forbice raggiungono il loro apice. E non è un caso se il film con Johnny Depp è ancora oggi quello considerato manifesto dell’intera poetica burtoniana.
Il punto di cesura e il fallimento delle intenzioni
La fascinazione di Tim Burton per coloro che non rispondono alle aspettative di un mondo sempre più kitsch e meno aperto all’arte è dimostrato anche dal fatto di aver scelto di portare sul grande schermo il ritratto di Ed Wood, considerato uno dei peggiori registi nella storia del cinema. Ed Wood però non è un film biografico, non è un biopic per come lo consideriamo oggi. Si tratta di una lettera d’amore ai sognatori, un’ode a chi insiste nella propria visione, a chi non si arrende alla realtà ma preferisce sognare sogni di luce e celluloide. Questo è il Tim Burton che il pubblico ama di più, quello più puro, quello che raccontava le sue storie per il suo pubblico, con un’onestà emotiva e intellettuale che portava anche lo spettatore più cinico ad abbassare le armi.
E questi film – compreso anche Il mistero di Sleepy Hollow – hanno avuto un impatto così forte nel cinema di quegli anni, discostandosi dagli standard dettati dalle grandi società, che per molti la carriera del regista si è fermata lì. O quasi. Il punto di cesura, infatti, arriva con Big Fish, storia di uno straordinario viaggio tra freaks ed esclusi che per molti rappresenta l’ultimo film di Tim Burton, prima della sua “corruzione”, prima della sua decadenza.
Sguardo febbrile in continuo movimento e capelli impossibili da domare, abiti neri con cui circondarsi e una macchina da presa a cui affidare i propri demoni: se si guarda da vicino la figura di Tim Burton sembra di vedere la personificazione dei suoi stessi personaggi. Un artista considerato troppo strano, troppo fuori le righe, impossibile da catalogare. Un “mostro”, ancora una volta, che deve essere allontanato. Ma la fascinazione per ciò che è diverso (e ciò che può essere redditizio) a volte è un richiamo persino più forte di quello proverbiale delle sirene.
Dopo essere stato licenziato dalla Disney, Tim Burton viene richiamato all'”astronave madre”. Stavolta non è più un reietto che fa film strani che spaventano i bambini, ma un regista a cui affidare grandi progetti. Ed è il tempo del fallimento. Per il pubblico Tim Burton diventa un traditore: lui che ci aveva insegnato a scappare dai colossi, che ci aveva invitato a correre selvaggi in mondi che non fossero quelli della società, si “piega” all’idea del remake con La fabbrica di cioccolato, crea un palcoscenico di vuota stravaganza con Alice in Wonderland e persino lo splendido La sposa cadavere viene percepito come una versione non riuscita di un sequel ideale di Nightmare Before Christmas
Tim Burton c’è ancora, ma è un uomo e un artista diverso
I primi anni Duemila, per Tim Burton, sono gli anni delle recensioni feroci, dei critici che riempiono le loro pagine come se fossero indagini della polizia su una persona scomparsa. Dov’è andato a finire Tim Burton? Che ne è stato di Tim Burton? Come ha fatto a dimenticare come si fanno i film (belli)? Il regista di Mars Attacks! ha sempre detto in più di un’intervista che il cinema, per lui, è una forma di psicoterapia. I film, per lui, sono una cura. Non sorprende dunque che un regista, che è prima di tutto un essere umano, metta se stesso e il suo stato d’animo anche nei film.
Questa seconda fase della sua filmografia è una fase felice. La sua professione è stabile e riconosciuta, la sua poetica non viene più derisa, i suoi freaks sono accettati. Persino la sua vita personale va a gonfie vele e il regista diventa padre. Sono tutte emozioni destabilizzanti, diverse. Dietro l’occhio implacabile della macchina da presa non c’è più l’uomo in crisi, non c’è più l’artista che si sente solo, che guarda il mondo con la sensazione di farlo attraverso un vetro che lo separa da tutti gli altri. E il suo cinema rappresenta anche tutto questo. Diventa un’esplosione di colori (comunque sempre nelle tonalità più fredde e acide), ci sono sempre i suoi amati outsider che lottano per farsi strada nel mondo e dentro la propria identità. Ma le storie sono più leggere, più felici, meno struggenti. Di colpo sembra che il lieto fine sia una possibilità per un regista che invece aveva riempito i suoi primi film di un senso crescente di frustrazione.
Ma Tim Burton è ancora lì. La sua poetica è ancora lì. La sua capacità di realizzare film che raccontano altro che striscia sotto la storia principale è rimasta immutata. Prendiamo ad esempio Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, molto spesso sottovalutato e criticato. Tim Burton porta sullo schermo il musical di Sondheim e scrive per il cinema la storia di vendetta che omaggia l’Edmont Dantes de Il Conte di Montecristo. Mette note cupe nella gola di Johnny Depp e dipinge i toni fumosi di una Londra che è l’avamposto di una dannazione infernale. Porta sullo schermo quella che può essere considerata una versione oscura di Edward mani di forbice. Che cosa sarebbe successo se Edward non avesse accettato la caccia ai suoi danni? Come sarebbe diventato Edward se la società fosse riuscito a spezzarlo? Sarebbe impazzito, si sarebbe riempito di quella crudeltà che gli è in realtà ignota e se ne sarebbe fatto divorare.
Tim Burton, in questo film, parla degli scarti della società, di coloro che vengono valutati così poco dalle alte sfere della società da apparire invisibili. Sostituibili. Sacrificabili. Il Tim Burton che tutti davano per disperso è qui, nei toni spenti di questa Londra spettrale, dove gli unici colori che emergono sono quelli acidi che spuntano fuori quando i protagonisti sognano una vita che non può esistere, una vita che non è destinata a tutti loro.
E se fossimo noi a non saper più guardare?
Diciamolo chiaro e tondo: probabilmente non esiste un regista, nella storia del cinema, che abbia realizzato solo film perfetti e che sia sempre stato all’altezza delle aspettative. Tim Burton, in questa nuova epoca dove in molti lo hanno dato come finito, ha realizzato film davvero deludenti, come ad esempio Dumbo, che rimane il più dimenticabile della sua carriera. Ci sono stati lungometraggi che hanno davvero rasentato il fallimento totale, in cui la CGI divorava la storia, rendendola così inutile da annullarla. Pellicole che raccontavano una trama senza scintilla e con la stanca frustrazione di un regista che pensa di dover raccontare determinate cose non più perché sono quelle care alla sua immaginazione, ma perché è quello che il pubblico si aspetta.
Il cinema di Tim Burton è fatto di alti e bassi, di scelte giuste e di scelte davvero, davvero sbagliate. Questo rimane indubbio.
Ma forse c’è un’altra riflessione da fare, che ci porta subito all’ultimo progetto a cui il regista si è dedicato: Mercoledì. Come tutti sappiamo la serie tv è andata virale dopo la sua messa in onda su Netflix e i social sono impazziti per settimane. Eppure, di nuovo, la critica di settore alzava gli occhi al cielo dicendo che Tim Burton non era più il Tim Burton che conoscevano. Ma è giusto aspettarsi che un regista faccia film uguali a quelli di trent’anni fa? Davvero vogliamo che Tim Burton non esca dalla “gabbia” di dover sempre ambire a essere lo stesso autore di sempre? Forse siamo anche noi, quelli che hanno visto anni fa i suoi film e li hanno amati, a non saper più guardare. Se le nuove generazioni – per proseguire l’esempio – hanno amato Mercoledì forse non vuol dire che sono superficiali loro e che i loro gusti non valgono niente.
Forse è vero che siamo noi ad essere imprigionati con la nostra nostalgia, a non accettare che un regista possa cambiare, che possa decidere di trattare determinati temi a lui cari in modi diversi, anche più mainstream rispetto a quello che faceva all’inizio della sua carriera. Forse non è vero che Tim Burton non ha più nulla da raccontare, forse è che non ci piace più il modo in cui racconta. Ma questo non è un problema suo. Nel caso è nostro. Non è lui che non vuole più raccontare, siamo noi che non vogliamo più ascoltare. E forse questo è legato anche al discorso della percezione “intellettuale” dell’arte.
Quando una forma d’arte è più di nicchia, più autoriale, merita comunque il nostro tempo e la nostra passione. Quando diventa popolare, al contrario, va a nutrire le masse e perciò non può essere considerata arte ma solo una forma di intrattenimento, spesso di serie B. Un po’ come i film di Ed Wood.
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