Cosa c’è di più rassicurante del pensiero che gli avvenimenti della nostra vita possano prendere strade e tracciati imprevedibili, lontani dal vuoto penumatico di una realtà che ci opprime e non ci soddisfa più? Un retropensiero ipotetico basato sostanzialmente sull’idea che la Storia (così come del resto, il corso della nostra vita) si può fare anche con i “se”, nonostante tutto. Un concetto di ucronia che il cinema come mezzo privilegiato di racconto multimediale ha a più riprese utilizzato a modo proprio (basti pensare al Quentin Tarantino di Bastardi senza gloria e di C’era una volta a… Hollywood), esattamente come ha fatto Nanni Moretti nel suo ultimo, acclamato lungometraggio.
In Il sol dell’avvenire, il regista, sceneggiatore, attore e produttore romano si allontana dalla tetraggine del suo precedente Tre piani per intessere un graditissimo ed inaspettato ritorno alla sua forma artistica più smagliante; con il lungometraggio che sarà in concorso al 76° Festival di Cannes Moretti fa i conti con il suo passato, i suoi tic, le sue ossessioni, le sue visioni politiche, con il cinema (il suo e degli altri) del passato e del presente. Con uno sguardo tenero ed infine commovente verso un futuro incerto ma pur sempre radioso, spianando al contempo una strada verso l’ottimismo che parla in linea diretta con lo spettatore in maniera onesta e sorprendente.
Un film-matrioska che parla di passato e presente
Basterebbe iniziare dal fatto che lo splendido Il sol dell’avvenire sia un vero e proprio film-matrioska, una pellicola che al suo interno ne contiene tante altre, e stavolta al limite del parossismo anche per gli standard morettiani. Come nel suo premiato Sogni d’oro del 1981 sono molteplici i piani meta-cinematografici in ballo: nel suo strato più superficiale, c’è il quattrodicesimo lungometraggio del cineasta romano nelle sale già dal 20 aprile e di cui vi avevamo parlato in maniera raggiante nella nostra recensione; poi, a voler scendere più in profondità, c’è il racconto di un regista alla soglia dei settant’anni, l’alter-ego Giovanni che sta cercando di realizzare un film ambientato nel 1956 all’interno del distaccamento del PCI del Quarticciolo di Roma, mentre l’Unione Sovietica del tempo sferrava un violento attacco alla “compagna” Ungheria. Ma i sub-strati non finiscono mica qui.
In Il sol dell’avvenire Moretti replica l’effetto metacinematografico che aveva fatto grandi suoi titoli come Sogni d’oro ed Il Caimano, eccedendo con ulteriori livelli narrativi: c’è difatti anche il film sognato dal protagonista (una storia d’amore con tante belle canzoni italiane) e un secondo lungometraggio in via di riprese, prodotto dalla moglie Paola (Margherita Buy) e diretto da un giovane dietro la macchina da presa senza arte né parte che il Giovanni interpretato da Nanni Moretti criticherà aspramente. Tutto questo per sottolineare quanto l’ultima fatica cinematografica del nostro si disponga naturalmente non solo a diversi piani di lettura, ma anche ad intraprendere un duplice dialogo tra Giovanni-Nanni e i suoi spettatori odierni.
Uno splendido settantenne con tutta la vita davanti
Il cineasta cult di titoli come Ecce Bombo e Bianca sta per compiere settant’anni, e con il suo ultimo film mette in atto forse il gesto più generoso mai fatto in tutto il corso della sua carriera dietro e davanti la macchina da presa: allestire uno spettacolo cinematografico che contenga i grandi temi ricorrenti della sua poetica, i suoi ritornelli ironici ed irrefrenabili, la sua spudorata vitalità politica per consegnare infine la sua persona ad una nuova platea di spettatori.
Un’audicence, quella morettiana, che lo stesso regista sa essere cambiata drasticamente nel corso dei decenni: non più solo “teste bianche” ed incalliti intellettuali di cinema sinistroide, ma adesso anche giovani studenti, cinefili in erba ed adulti che sono cresciuti nel frattempo con i capolavori dell’autore romano, pronti ancora una volta a farsi ammaliare dall’ultima invettiva di Nanni Moretti. Perché a conti fatti Il sol dell’avvenire sta riscuotendo un trasversale successo in sala proprio perché, ancor più dei suoi precedenti lungometraggi, si abbassa consapevolmente alle aspettative del nuovo (e vecchio) pubblico, mantenendo promesse e guardando in là verso il futuro con uno sguardo rassicurante di cui avevamo bisogno.
Nanni Moretti in linea diretta con lo spettatore
Emblematici di questo duplice discorso sono alcuni degli snodi narrativi più efficaci dell’intera pellicola. In primis, l’incontro/scontro di Giovanni con il giovane regista alle prese con l’ultimo ciak di un lungometraggio d’azione pretenzioso ed inutilmente violento. Una ripresa finale che verrà continuamente interrotta dalle invettive del personaggio interpretato da Moretti, disgustato dall’uso contaminato e senza poesia della violenza nel filmetto del giovane autore. Per sostenere la tesi secondo la quale il cinema di oggi ha perso la strada maestra, Giovanni coinvolgerà (nel ruolo di loro stessi!) addirittura Renzo Piano, Chiara Valerio, Corrado Augias, tenterà una telefonata a Martin Scorsese, citerà in tono commosso uno dei più strazianti capitoli del Decalogo di Kieslowski.
Non sazio, Giovanni si rivolgerà in seguito anche a Netflix per trovare i finanziamenti necessari a terminare le riprese del suo film politico, trovandosi però di fronte ad un’azienda arida ed asettica, diametralmente opposta all’idea produttiva (ed artistica) che ha lo stesso Moretti del fare cinema. Immergendo dunque il suo alter-ego nella scomoda posizione di vecchio burbero che non sa stare ai cambiamenti della realtà che lo circonda, sotto le pieghe della sceneggiatura il nostro instaura un dialogo con lo spettatore presente e passato attraverso lo specchio riflesso del grande schermo di una sala cinematografica.
Ucronie italiane che fanno bene al cuore
Nanni Moretti sa benissimo con questo film di star chiudendo un cerchio della sua carriera e della sua vita privata (e spesso, i suoi film sono stati contraddistinti da una fortissima matrice autobiografica), e per fare i conti con se stesso e con ciò che cambia ma per il quale proprio non può farci nulla, sceglie di accompagnare la nuova e vecchia schiera dei suoi fedeli spettatori verso un futuro incerto ma non per questo meno entusiasmante. In un finale dal sapore felliniano dove sfilano personaggi del presente e del passato del cinema di Moretti, l’autore decide di abbracciare in toto le rassicuranti scorciatoie dell’ucronia, immaginando un finale per il film di Giovanni nel quale il protagonista non si suicida e il PCI guidato da Togliatti mette in atto uno scisma, allontanandosi dalla barbarie perpetrata dall’Unione Sovietica.
Un finale immaginario, quello del film nel film, che rappresenta al meglio il punto di arrivo del percorso dell’alter-ego di Nanni Moretti: per liberarsi delle zavorre del presente, è necessario un atto di rispettosa rottura con la Storia (la propria e quella socio-politica), preferendo infine una felicità liberatoria al peso dell’ideologia di sinistra che tanta parte ha fatto in passato nel suo cinema. Nel film, Moretti sceglie dunque il ballo liberatorio e trasognante (sulle note di Battiato, ancora una volta) ad una realtà che non riesce più a capire, impietrito di fronte a un matrimonio a pezzi e ad una mercificazione dell’arte di cui non vuole più fare parte. Una strada maestra, quella della totale libertà immaginativa, che pone le basi per una ripartenza (forse da zero?) del cinema morettiano, della storia d’Italia e del destino di una nuova generazione di spettatori. A cui adesso spetta cogliere il testimone dell’immensa lezione di arte, di politica e di vita di uno splendido settantenne del cinema di ieri, oggi e domani.
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