Da più di cento anni Hollywood rappresenta una sorta di incarnazione onirica di tutto ciò che è il cinema occidentale, coi suoi vizi e le sue sue virtù. C’è un intero filone che da Viale del tramonto, passando per Il giorno della locusta e arrivando fino a Babylon, ce lo racconta.
Era infatti il 1912 quando il primo studio in assoluto, il Nestor Studios, apriva i battenti in quella che di lì a poco sarebbe diventata la Mecca del Cinema cambiando per sempre le sorti di un piccolo sobborgo di Los Angeles e dell’intrattenimento mondiale. E sì, forse già da allora sembravano lontani i tempi in cui si credeva che il cinema fosse un’invenzione senza futuro.
Per più di un secolo Hollywood si è imposta al mondo coi suoi prodotti, le sue star, i suoi scandali, più tardi con il suo impegno sociale, ma anche con le sue contraddizioni riuscendo a trovare un labile equilibrio tra realtà e finzione, tra arte e profitto. Ne consegue che oggi chi fa cinema, ma anche chi ne scrive, si ritrova a fare i conti con un’eredità sterminata a cui non è possibile non far riferimento, anche solo inconsciamente.
Hollywood e i film che dialogano
Ma cosa c’entra tutto questo con il cinema di oggi?
Come in qualunque altra forma d’arte anche nel cinema si può parlare di intertestualità: di quel dialogo imprescindibile che avviene tra opere e creatori, capace talvolta di prescindere anche il tempo. Un dialogo che ovviamente prosegue anche attraverso coloro che provano a costruire ragionamenti sui film, come stiamo facendo ora.
Se quindi agli albori del cinema, quando c’erano pochissimi prodotti a cui guardare, la letteratura veniva considerata non a caso un genere alto, un punto di riferimento privilegiato anche solo per avvalorare quell’industria nascente, nel corso del tempo Hollywood ha assorbito come una spugna tendenze provenienti da ogni dove, diventando un macrocosmo in cui ogni film è figlio dell’altro. Certo, non sono soltanto i film hollywoodiani a dialogare tra loro, ma il discorso si farebbe più ampio e articolato.
Con tutto ciò che ne consegue, Hollywood infatti riesce a influenzare l’industria a livello internazionale dettando tendenze e l’andamento stesso del mercato. È così da decenni ma in un momento storico particolarissimo come il nostro, in cui è necessario far sì che le sale ritrovino un’identità e che le piattaforme ne abbiano un’altra magari complementare, è più evidente che mai.
Come è stato nella seconda metà degli anni Sessanta, anche oggi notiamo una certa stanchezza di Hollywood. In molti dicono che si tende a osare di meno, che si fanno investimenti sicuri, che c’è troppo perbenismo e nostalgia del passato. Argomenti che, incredibilmente, non sono troppo diversi da quelli che si potevano addurre alla “crisi del cinema” prima dell’invasione di Easy Rider e della New Hollywood.
Senza addentrarci in analisi socio-politiche dell’industria, è chiaro che in questi anni – complice anche la pandemia – sta avvenendo di nuovo qualcosa. Il cinema che si fa oggi a Hollywood è diverso rispetto a quello che si faceva anche solo dieci anni fa, basti pensare al fatto che si produce tanto (troppo, oseremmo dire) e che tante grandi produzioni americane abbiano come costante il richiamo al passato.
Qualcosa che, con più di cento anni di storia alle spalle, non può non avvenire. Come abbiamo già detto: le opere dialogano. Eppure, molto spesso, quelli che notiamo non solo omaggi all’interno di opere, ma opere le cui fondamenta poggiano su qualcos’altro di preesistente. Da qui l’idea che Hollywood si stia riciclando, cullandosi tra le braccia dei suoi giganti, come se oggi nel raccontare storie si tendesse a ricercare, più o meno consciamente, una sorta di comfort zone. Con tutto quello che ne consegue.
Hollywood e i film derivativi
Che i film non possano reggersi sulle citazioni è un’ovvietà. Eppure oggi questa tendenza, che tra simpatia e nostalgia strizza l’occhio a un pubblico accuratamente selezionato, pare concretizzarsi sempre di più. Seguendo un percorso che Quentin Tarantino iniziò a tracciare per primo negli anni Novanta, quando parlare di post-modernismo andava ancora di moda, molti registi hanno iniziato costruire le proprie storie sulla base di citazioni; qualcosa che in realtà è molto diverso dall’omaggiare o comunque dall’utilizzare qualcosa di preesistente per raccontare una storia che sia davvero originale.
Nell’ultimo anno Amsterdam e Bullet Train hanno ricalcato questo modus operandi, costruendosi attorno un’allure interessante ma da cui emergeva la sensazione costante del “già visto”. Soprattutto se si paragonano questi film proprio al lavoro di Tarantino.
Tuttavia è con due titoli decisamente altisonanti che nel 2022 Hollywood ha toccato l’apice di questa derivazione: Babylon e Don’t Worry Darling. Raccontando in entrambi i casi una storia contorta e a tratti confusa, i film si fanno forti del loro impatto sul fronte visivo, risultando in realtà estremamente derivativi nella narrazione quanto nella messa in scena.
Babylon, pensato come omaggio al cinema di ieri e di oggi, è palesemente costruito su Cantando sotto la pioggia. Da questo riprende situazioni, sketch e addirittura il film stesso. Oltre a ricalcare una sequenza del musical Hollywood Revue of 1929 per cui la celebre canzone di Arthur Freed e Nacio Herb Brown, che poi diede il titolo alla pellicola di Kelly e Donen, era stata scritta. Un’operazione ambiziosa, non priva di significato, in cui il film di Chazelle ci fa riflettere su questa tendenza al riuso nel cinema contemporaneo, forse sinonimo di quel momento di passaggio a cui abbiamo accennato, ma che rende l’opera in sé a tratti sterile. Nonostante sia a tutti gli effetti una lettera d’amore nei confronti del cinema.
Lo stesso, se non di più, vale per Don’t Worry Darling un film che ha fatto parlare di sé più per il gossip che gli ruotava attorno che per l’impatto su pubblico e critica. Permeato da quella solita sensazione di già visto, il film è un confuso mix tra The Stepford Wives (sia l’originale del 1975 e che il remake del 2004), Matrix e i melò di Douglas Sirk. Inoltre c’è una particolare sequenza onirica ripresa direttamente dalle coreografie di Busby Berkeley, i cui numeri caleidoscopici, considerati a tratti audaci e inquietanti, contraddistinguevano i musical della Warner Bros negli anni Trenta.
Un melting pot stilisticamente ben congegnato e insaporito da un po’ di femminismo spicciolo di cui è difficile comprendere valore e originalità, anche di più rispetto al film di Chazelle che se non altro prova a seguire una sua direzione.
Hollywood e i rifacimenti: remake, reboot, spin-off
Un altro aspetto interessante del cinema hollywoodiano contemporaneo è sicuramente quello di far rivivere saghe e franchise attraverso sequel, reboot e spin-off. Qualcosa di leggermente diverso rispetto a quello appena visto, dal momento che molto spesso presuppone la produzione di più opere che, di conseguenza, vanno a connettersi a un universo già esistente.
Lasciando da parte la serialità e il Marvel Cinematic Universe, che meriterebbe un discorso a parte, i rifacimenti, i sequel, gli spin-off e prodotti connessi ad altri già esistenti sono stati realizzati sin dall’inizio per i motivi più disparati: da quello economico (pensiamo alle centinaia di B-movies horror prodotti dalla Universal negli anni Cinquanta), a quello esperienziale nella ricerca di quella comfort zone di cui abbiamo parlato.
Un compromesso che permette a creatori e produttori di puntare, più o meno, sul sicuro e al pubblico di godersi quelli che appunto chiamiamo comfort movies. A pensarci bene i tantissimi remake, reboot, spin-off che negli ultimi anni hanno spopolato in sala e sulle piattaforme nascono dagli stessi presupposti: dare agli spettatori esattamente quello che desiderano, facendo (nella maggioranza dei casi) un investimento certo. Soprattutto se, come nel caso dei Disney, l’uscita del film è accompagnata dal lancio di merchandise dedicato.
Un meccanismo che esiste da sempre a Hollywood, e non solo per i franchise, basti pensare a un film come È nata una stella di cui esistono ben quattro versioni. Tuttavia quando si parla di saghe la questione diventa più complessa e va a intrecciarsi con la qualità delle opere stesse che, a lungo andare, risultano sfibrate e incoerenti.
In questi casi nostalgia e fattore economico sono legati a doppio filo, tuttavia a volte la matassa si fa sempre più intricata perché a lungo andare anche la migliore delle idee rischia di deteriorarsi. Allora cosa fare: fermarsi oppure provare a consegnare un franchise ancora forte alle nuove generazioni?
Quest’ultimo scenario si sta concretizzando per Star Wars e Scream in cui si alternano prodotti più buoni ad altri meno buoni, con indici di gradimento altalenanti soprattutto da parte dei fan i quali, tuttavia, per inerzia o reale nostalgia continuano a seguire le vicende di Ghostface o della galassia lontana lontana.
In questo senso un caso interessante è rappresentato dai live action Disney che, pur essendo opere singole, rientrano in un’idea più ampia di franchise. Come è noto la major di Topolino sta lentamente e inesorabilmente riportando al cinema tutti i suoi Classici: qualcosa che aveva tentato anche qualche anno fa per poi desistere, probabilmente per questioni economiche ed effetti speciali ancora non sviluppati come quelli di oggi. Come molti sanno dalla curiosità iniziale ora si è passati perlopiù alla rassegnazione, con la consapevolezza che prima o poi Disney riporterà in sala o in piattaforma tutto il proprio catalogo di film d’animazione in forma di live action o in CGI. Che ci piaccia o meno.
Ora chiedersi il senso di queste operazioni si colora di un senso più ampio dal momento si assiste a un passaggio di tecnica non indifferente: quello tra animazione e live action (lasciando da parte il caso de Il re leone). L’animazione non è un genere e trasporre in live action con pesanti aggiunte in CGI, molto spesso pedissequamente e con cambiamenti che strizzano l’occhio a tematiche attuali ma non memorabili (ancora ci chiediamo il senso della lavatrice di Belle nel film del 2017), equivale a portare su un piano di realtà qualcosa che con il reale non ha nulla a che vedere e che fa svanire la bellezza e il potere dell’animazione.
Eppure questa ricerca di iperrealismo continua, come abbiamo potuto vedere dai recenti trailer di Peter Pan & Wendy e La Sirenetta, che arriveranno presto rispettivamente su Disney+ e al cinema.
CGI: tra iper realismo e ringiovanimenti
In questi casi potrebbe non essere scorretto affermare che la CGI perde il suo valore di “effetto speciale” e anziché portare il pubblico più vicino a un universo immaginario lo allontana, non facendolo mai distaccare troppo dal piano reale.
Abbiamo già citato l’esempio de Il re leone in cui il risultato finale, anche se ottimo in termini di qualità, non è riuscito a non provocare un’ondata di sdegno generale proprio per il fatto di aver trascinato l’aspetto visivo su una prospettiva realistica, senza però abbandonare il linguaggio tipico dell’animazione. Il tutto, senza apportare alcun tipo di cambiamento al prodotto stesso che risulta una copia, bella o brutta che sia, del film del 1994.
Questo stesso discorso è valido per tutti i live action Disney prodotti finora e, molto probabilmente, anche per quelli che vedremo nel prossimo futuro. Ecco perché parlando di copie è interessante concludere questo nostro discorso parlando di un’altro aspetto della CGI: il ringiovanimento in digitale.
In questo senso potremmo dire che gli effetti visivi digitali stanno agli animatronics così come il trucco sta al ringiovanimento in digitale. Chiunque segua la saga di Star Wars ricorderà la breve apparizione di Carrie Fisher/Principessa Leia ringiovanita in Rogue One, che qualche anno fa aveva fatto saltare sulla sedia milioni di appassionati in tutto il mondo; mentre più recentemente abbiamo visto Harrison Ford ringiovanito nel trailer di Indiana Jones e il quadrante del destino, chiaramente per una sequenza flashback.
Un dettaglio non da poco che ci ha fatto sentire tutti un po’ strani e non solo perché un escamotage come questo sta diventando abusato, ma soprattutto perché è lecito chiedersi come riuscirà a riagganciarsi in modo forte al passato di un personaggio amatissimo e a una saga che molti consideravano conclusa già nel 1989.
Perché sì, a quanto pare Indy è stato tra i primi che, qualche anno fa, non è riuscito a sfuggire a questa mania di Hollywood di chiamare a raccolta vecchie glorie anche quando sarebbe stato meglio lasciarle cavalcare verso un’altra ignota avventura.
Hollywood e quello che resterà
Il cinema è un’arte e un’industria relativamente giovane, ma da quello che abbiamo potuto constatare è fatta di cicli. Dei cicli che, soprattutto a Hollywood, sembrano ritornare a cadenza piuttosto regolare e che, con il senno di poi, coincidono con fratture e momenti di passaggio. Come quello che con tutta probabilità stiamo vivendo adesso.
Tutto quello che abbiamo detto non rappresenta infatti una novità assoluta. Il cinema di Hollywood è estremamente autoreferenziale, ha i suoi codici, e da sempre rimpasta, ricicla, riparte da capo per raccontare le stesse storie in modo diverso. Quello che è certo è che oggi questa tendenza stia andando per la maggiore.
Cosa accadrà? Bisognerà aspettare almeno un altro decennio per scoprirlo e allora sarà molto interessante vedere quali, tra tutte queste derivazioni e variazioni su tema, sarà riuscita a rimanere impressa nel cuore e nella memoria degli spettatori. Perché si dovrà ripartire da lì.
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