Nella storia del cinema horror pochi film possono essere considerati punti di rottura con la tradizione allo stesso modo in cui lo fu il primo capitolo di Scream. Il film di culto realizzato da Wes Craven nel 1996 segna uno spartiacque epocale all’interno nel percorso artistico dell’autore e, insieme, una frontiera verso cui spingere il genere e oltre cui esplorarne le nuove possibilità nel territorio del postmoderno.
Non è da un cilindro magico che un’opera come Scream può essere tirata fuori, se a farlo non è prima di tutto un regista che ha sempre cercato di rivoluzionare (riuscendoci, il più delle volte) l’horror a partire da una profonda conoscenza dello stesso. Basti pensare alla saga di Nightmare: se nel 1984 il personaggio di Nancy Thompson aveva rielaborato i canoni del trope narrativo della final girl e quello di Kruger cambiato connotati e caratteristiche del villain (ora in grado di plasmare una sua dimensione in cui guadagnare poteri illimitati), con il settimo capitolo del 1994, Nightmare – Nuovo Incubo, Craven torna al timone della sua creatura per restituire alla sua creatura la statura originaria dopo una serie di sequel che ne avevano ridimensionato – con capitoli talvolta divertenti, se non del tutto riusciti – la potenza immaginifica. Nuovo Incubo anticipa di due anni il discorso fatto mediante Scream: è, infatti, un film horror nel suo senso più puro, ma è anche una riflessione sulla saga di Nightmare e sul suo lascito.
Una premessa: Nightmare – Nuovo Incubo
Nancy Thompson cessa di esistere per lasciar spazio all’attrice che ne vestì i panni, Heather Langenkamp; Wes Craven compare nelle vesti di se stesso, proprio come il produttore Robert Shaye e la New Line Cinema. Freddy torna a essere un boogeyman pericoloso e terrificante, ma Nightmare – Nuovo incubo adopera la sua icona per parlare della sua icona, non più confinata nel mondo di celluloide da quando Freddy diventa parte di un immaginario collettivo. Gran parte della critica del tempo lo definì il primo film horror post-moderno: in effetti la necessità di Craven è quella di farsi interprete del rapporto che sussiste fra creatore e creatura, ma anche del concetto stesso di paura e del bisogno di tramandare storie (specialmente quelle di paura). Nightmare – Nuovo Incubo si potrebbe definire, in un certo senso, uno Scream ante litteram, ma la definizione non sarebbe completa e sarebbe in parte fuorviante.
La verità è prima di Scream non era mai esistita un’opera horror che condensasse gli stilemi dello slasher e che li analizzasse prendendosene gioco. È vero, il settimo capitolo di Nightmare è metacinema, ed è vero, lo è prima di Scream, ma pur sempre entro i confini che delimitano lo spazio d’azione di Craven. Nightmare era opera di Craven, che si aggiudica il diritto di meditare sull’eredità di quell’opera che realizzò nell’84. Insieme a Kevin Williamson, sceneggiatore, è lo slasher nella sua complessità e nella sua totalità a finire invece nel mirino del ragionamento metafilmico di Scream. Con una consapevolezza e un’ambizione senza precedenti, tutto il sottogenere dello slasher horror viene preso in esame, ricostruito giocando con le sue regole (aggirandole e poi rinsaldandole) e rendendo i personaggi consapevoli, in un certo senso, del proprio ruolo e di quello che accade all’interno dell’opera.
La violenza come spettacolo
Tuttavia sarebbe errato limitare la rilevanza di Scream a questa dimensione metatestuale. Assoluto centro del primo capitolo del ’96, come ribadito dai sequel a venire, è infatti la violenza e le reazioni che ne conseguono: il modo in cui la violenza viene osservata e percepita, le interazioni degli esseri umani con lo sboccare della violenza nella loro quotidianità e, allo stesso tempo, il suo rimbalzare continuo fra personaggi mai davvero in grado di assorbirla davvero, è probabilmente l’insieme di fattori che rende Scream amato ancora oggi e tuttora capace di affascinare le nuove generazioni di spettatori. Il contesto socioculturale in cui nasce il film è quello dei mezzi di comunicazione che filtrano ogni notizia (soprattutto se di cronaca nera) piegandola al target dell’audience. Si configura una vera e propria narrazione della violenza in cui i coinvolti cessano di essere analizzati come persone e iniziano a essere raccontati come personaggi: carnefice e vittima possiedono determinate caratteristiche imprescindibili e occupano dei ruoli precisi all’interno della storia che viene raccontata ai loro spettatori. Nulla di tanto diverso rispetto ai film horror che i personaggi stessi amano all’interno del film: è dunque la spettacolarizzazione della violenza, a cui ragazzi e ragazze vengono sottoposti tramite la televisione e altri media, a generare il cortocircuito fra realtà e finzione che è nucleo di Scream.
Quello di Scream è un universo in cui gli adolescenti sono insensibili nei confronti degli omicidi; non si può provare rabbia nei confronti dei killer, non si può provare compassione nei confronti delle vittime e dei loro cari, allo stesso modo in cui non è possibile provare empatia nei confronti dei personaggi-funzione dei film horror che ci piacciono. L’unica conseguenza a lungo termine della pervasività della brutalità nella routine della vita reale è quella di trasformare in icona ogni partecipante e le icone, come cattivi e uccisi dei film horror, possono e devono essere desacralizzate. L’aridità con cui ogni omicidio viene accolto dalla comunità giovanile di Woodsboro è naturale prodotto dello storytelling della violenza, che si trasforma in uno show sensazionalistico (soprattutto tramite i giornalisti rappresentati dalla sciacalla Gale Weathers, paradossalmente seconda final girl del film).
Ghostface e la novità dell’assassino-chiunque
È quindi un’opera visceralmente connessa al tessuto culturale che la produce, Scream, e lo resta con il passare degli anni, capitolo dopo capitolo. La rivelazione di Ghostface non è solo il momento attorno cui l’attesa dello spettatore è sempre concentrata, per ovvie ragioni connesse alla natura del film slasher (e dell’importanza attribuita al killer, dal suo aspetto alle motivazioni in virtù di cui agisce), ma anche coerente proseguimento del discorso interno al singolo film.
Il primo capitolo è strutturato sull’esigenza di sovvertire i tropi narrativi: non solo la storica final girl incarnata da Sidney Prescott perde la verginità nel corso del film, venendo meno alle regole che garantirebbero la sopravvivenza in uno slasher, ma anche Ghostface diviene perno della riflessione metacinematografica di Scream. Per la prima volta nella storia dello slasher il killer non è uno. Ghostface, ispirato al Michael Myers di carpenteriana memoria nella sua elusività, ha una sola maschera ma tanti volti, e quelli del primo villain della saga appartengono all’”atleta” Billy Loomis e al “buffone” Stu. Questa molteplicità, questa pluralità di identità, consente a Williamson di razionalizzare il concetto di villain immortale permettendo a Ghostface di reincarnarsi in qualsiasi cittadino di Woodsboro che abbia una valida motivazione per indossare una maschera e uccidere qualcuno. Michael Myers è sempre colui che fu rinchiuso in un istituto, Pinhead è il solito cenobita che governa la dimensione del dolore. Ghostface è, invece, chiunque: qualsiasi sesso, qualsiasi etnia, qualsiasi personaggio può celarsi dietro il suo costume perché il villain viene totalmente rappresentato dalla sua maschera, mentre la sua vera identità diventa secondaria e arbitraria.
Scream 2: il sequel che legge la società del proprio tempo
Anche in Scream 2 Ghostface asseconda le esigenze di narrazione in modo del tutto lineare nello schema della dissertazione del film. Il sequel del 1997 è un capitolo scisso fra diverse spinte di genere: la rivelazione dell’assassino, doppia anche stavolta, da una parte asseconda gli intenti originari di Williamson e Craven, ma dall’altra ripete invece quelle ragioni “emotive” che caratterizzano i villain horror da ben prima dell’avvento dello slasher. Mickey Altieri vorrebbe uccidere Sidney per il solo scopo di farsi catturare e poi far ricadere le colpe dell’omicidio sulle responsabilità della violenza presente nei film che guarda. È una scelta che estremizza il concetto cardine del primo film, violenza come spettacolo, facendosi però beffa di quella stessa branca di mass media che ignorano l’elefante nella stanza – la narrazione della violenza da loro stessi promossa – e affibbiano le origini di ogni misfatto e peccato al cinema del sangue. Dall’altra, però, il contrappeso fornito dalla seconda Ghostface: Debbie Salt, madre del Billy Loomis ucciso da Sidney nel primo film, ritorna sulle tracce della pura e semplice vendetta come motore primario del killer.
Scream 3: nei recessi dello showbiz
Scream 3 affronta, con una capacità di visione che si potrebbe quasi definire preveggente (o solo molto attenta), il terreno oramai ben battuto dei rapporti di potere fra produttori, registi e attrici a Hollywood. Tutto il terzo capitolo della saga è costruito sul paradosso del film nel film – il set di Stab si confonde con la realtà, esattamente come succede con gli attori che diventano simulacri dei loro “reali” corrispettivi – e sulla figura di Sidney, che sta cercando di risolvere i conflitti con il suo passato traumatico e con la figura materna, ma anche con il misterioso legame fra questa e uno showbiz che sembra averla cannibalizzata. Stavolta la rivelazione di Ghostface ci porta a puntare il dito su Roman, che vive egli stesso in una casa-maniero molto somigliante a quella dei whodunit ad atmosfere gotiche. La figura di Maureen Prescott assume un senso in seguito alle rivelazioni di Roman, che afferma di essere stato dato in adozione dalla madre quando ancora era un’attrice a Hollywood. Nemmeno il ritorno di Maureen a Woodsboro servì per ricucire i rapporti col figlio abbandonato, che viene del tutto rinnegato.
Scream 4: lo storytelling della violenza
La capacità di fondere il metacinematografico con la riflessione sui media e sul potere di suggestione che vantano nella società odierna è forse ancora oggi insuperato rispetto a Scream 4, dove Ghostface celava l’identità di Jill Roberts, che architetta un piano per simulare una strage e al contempo uscirne nel ruolo di vittima autoprocurandosi dei grossi traumi fisici. Il piano salta per colpa della vanità dell’assassina, ma il risultato non cambia: Jill diventa eroina sacrificale di una tragedia, proprio come previsto e voluto. Il potente finale del quarto capitolo conferisce un senso predeterministico alle conseguenze delle narrazioni dei mezzi di comunicazione, anticipando l’invettiva di Gone Girl diretta alla staticità dei ruoli nello storytelling della violenza.
I nuovi capitoli e l’eredità di Craven
Nel quinto capitolo Ghostface è ancora doppio, com’è doppio il suo sesso (Amber e Richie), e le sue scelte scaturiscono dalla definitiva confusione fra realtà e finzione, in cui s’ipotizza che un’opera possa essere generata da una scia di omicidi reali che risultino particolarmente originali. In quel che sembra essere il capitolo di mezzo di una nuova trilogia (tutto porta a crederlo), Scream VI invece comincia a flirtare con una possibilità che è stata a lungo rinnegata ma adoperata nel campo dell’horror in senso generico: quella che vedrebbe la stessa final girl occupare il ruolo del villain. Senza fare spoiler (non riveleremo certo in questa sede l’identità di Ghostface), il sesto capitolo della saga accarezza l’idea che dietro il personaggio di Sam Carpenter (interpretato da Melissa Barrera) possa insinuarsi, sempre in modo predeterministico, il seme di un male ereditato da Billy Loomis – padre e primo Ghostface – che attende soltanto di essere incorporato del tutto. Non ci resta che attendere dove questa strada porterà il futuro della saga e se questo stimolo narrativo si trasformerà in un cammino nuovo per Scream.
Sebbene la nuova trilogia non riesca a oltrepassare quella linea di confine tracciata dall’ultimo capitolo – il quarto – affidato a Craven in regia e a Williamson in sceneggiatura, Scream rimane ancora oggi il più efficace ed energico dispositivo horror in grado di ragionare sulla correlazione fra realtà e finzione, fra verità e resoconto, fra opera e spettatori, senza mai rinunciare a farsi sempre puro e fiero intrattenimento per le masse.