È dal 2010 che Sarah Polley, attrice canadese che ha lavorato con registi del calibro di Terry Gilliam, Atom Egoyan, David Cronenberg e Zack Snyder, non appare più davanti alla macchina da presa, ponendo ufficiosamente fine a una bella carriera recitativa (lei non ha mai pubblicamente detto di essersi ritirata, ma è logico supporre che sia così). Una scelta che ha però compensato passando alla regia, a volte avvicinandosi a progetti che sono finiti in mano ad altre colleghe (tra questi la versione di Piccole donne firmata da Greta Gerwig). Dieci anni dopo il documentario Stories We Tell, che affrontava il tema delicato di segreti all’interno della famiglia della stessa regista, Polley è tornata con un nuovo lungometraggio di finzione, basato sull’omonimo romanzo di Miriam Toews e presentato ai festival di Telluride e Toronto prima di arrivare nelle sale del mondo intero. Di questo lungometraggio parliamo nella nostra recensione di Women Talking – Il diritto di scegliere.
Women Talking – Il diritto di scegliere
Genere: Drammatico
Durata: 94 minuti
Uscita: 8 marzo 2023 (Cinema)
Cast: Rooney Mara, Claire Foy, Jessie Buckley, Judith Ivey, Ben Whishaw, Frances McDormand
La trama: ribellarsi a parole
È il 2010, ma per le donne che vivono in una comunità mennonita in mezzo al nulla in un luogo non precisato degli Stati Uniti potrebbe anche essere il Medioevo: la setta, molto religiosa, si regge sui princìpi del patriarcato, vive isolata dal resto del mondo e non si serve della tecnologia; inoltre, solo i maschi hanno il diritto di imparare a leggere e scrivere, ed è previsto che le femmine ubbidiscano sempre e comunque. Quest’ultimo dettaglio viene messo in discussione quando diverse donne capiscono di essere state violentate nel sonno, e una di loro coglie in flagrante uno dei responsabili. Gli uomini si recano in città per occuparsi degli aspetti giudiziari, il che dà alle donne un periodo di due giorni per decidere se rimanere e far finta di nulla, ribellarsi una volta per tutte, o andarsene. Le esponenti delle principali famiglie si incontrano in un fienile per capire come procedere, in presenza degli unici due maschi rimasti: August, l’insegnante, incaricato di mettere a verbale tutto dato che solo lui è in grado di scrivere; e Melvin, ostracizzato e stuprato dopo essersi dichiarato uomo trans. Il desiderio di libertà è forte, ma l’indottrinamento mennonita è forte: tra le principali obiezioni all’idea di fuggire c’è il precetto in base al quale, rigettando la presenza maschile, le donne si vedrebbero negato l’accesso al Paradiso.
Il cast: un fienile pieno di talento
Come da titolo, il cast principale è quasi interamente femminile, con la notevole eccezione di Ben Whishaw nei panni di August, l’insegnante che empatizza con le difficoltà delle protagoniste in quanto lui stesso figlio di un’ex-mennonita che ha abbandonato la comunità anni addietro (e interpretato da un attore che ha sempre saputo trasformare la compassione in grande strumento espressivo sullo schermo). Davanti a lui si consuma una lunga, coinvolgente e a tratti inquietante conversazione che trae vantaggio dalle forze recitative delle singole attrici, che si tratti dell’espressiva impassibilità di Rooney Mara o del turbinio emotivo di Claire Foy e Jessie Buckley, passando per il crudele stoicismo di Frances McDormand, che è anche produttrice del film e si è ritagliata il ruolo più inquietante di tutti. Lei è infatti “Scarface” Janz, la voce del dissenso, colei che ne ha subite talmente tante da essere ormai indifferente a qualsiasi sofferenza e propone che non si faccia nulla, perché ogni forma di opposizione, a suo parere, sarebbe inutile.
Un urlo liberatorio
Miriam Toews ha scritto il romanzo come ipotesi di reazione a fatti verificatisi in una comunità come quella descritta nel libro e nel film, per l’esattezza la colonia di Manitoba in Bolivia. Una realtà recente, che Sarah Polley trasforma in supplizio universale con una fotografia che allude alla natura fuori dal tempo di un sistema dove ogni forma di progresso si è fermata, un microcosmo dove il 2010 potrebbe essere il 1910 senza che nessuno notasse davvero la differenza. Verboso ma mai teatrale, il lungometraggio prende le location limitate e le amplifica o restringe a seconda delle esigenze drammaturgiche, rendendole prigioni fisiche e spirituali dalle quali è molto difficile scappare, se non a parole. È un esercizio di tensione che in un contesto specifico come quello delle sette religiose statunitensi dà voce a chiunque si sia mai sentita oppressa nel corso dei secoli, in qualunque angolo del mondo. Una risposta ipotetica a soprusi fin troppo reali, alla quale sarebbe molto utile dare ascolto. Per la forza del messaggio, e per la passione e la padronanza del mezzo cinematografico con cui Polley lo trasmette.
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La recensione in breve
Sarah Polley torna dietro la macchina da presa con un'opera quarta matura, furibonda, vitale, fuori dal tempo eppure molto attuale, sul tema dell'emancipazione femminile.
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Voto ScreenWorld