Sono 44 anni che sentiamo il bisogno di partecipare a una folle fuga in cui dei guerrieri cercano di tornare a casa dal Bronx fino a Coney Island, attraversando tutta New York in una notte. Decenni in cui abitualmente mettiamo le dita in colli di bottiglie di birra, facendole tintinnare, per poi con voce irriverente ripetere “Guerrieri, giochiamo a fare la guerra?”. Nel mentre l’albero-mondo è cambiato, mutato dalle radici fino alle punte più in vista dei suoi rami.
Eppure I guerrieri della notte mantiene il suo status di cult. Una sorta di tempio in cui ci rechiamo abitualmente per sbirciare di nuovo il capolavoro di Walter Hill, a volte per cercare qualche nuovo dettaglio che potrebbe esserci sfuggito. Altre semplicemente perché abbiamo voglia di fare un nuovo giro sulla “wonder wheel” più alta e splendente della storia del cinema. I guerrieri della notte torna al cinema a partire dal 6 marzo, facendoci venire una voglia matta di cercare di capire le ragioni dietro questa eterna voglia di fare la guerra.
Dalla carta alla pellicola
Partiamo dal principio. Siamo nel 1965: JFK se n’è andato già da due anni, in quel famigerato giorno a Dallas e con lui è svanita per sempre l’innocenza degli Stati Uniti. Lo ha sostituito Lyndon Johnson, che porterà avanti la questione dei diritti civili; nel mentre un pastore afroamericano è diventato uno dei simboli di un popolo che reclama i propri diritti, si chiama Martin Luther King e nel 1964 gli viene consegnato il Premio Nobel per la Pace; un altro di quei simboli viene assassinato ad Harlem il 21 febbraio del 1965, si chiama Malcolm Little, la Storia lo conoscerà come Malcolm X.
È questo il contesto in cui Sol Yurick si trova a scrivere I guerrieri della notte, il suo primo romanzo. Un’opera che combina l’Anabasi di Senofonte, citata apertamente nell’incipit e di cui riprende completamente la struttura, con la situazione delle gang di New York. Nel mezzo c’è molta analisi sociale e sociologica, un occhio di riguardo alla condizione afroamericana e più in generale all’eterno scontro tra i ragazzi e il mondo adulto. Tra le molte cose abbiamo un sistema che deve cambiare e se non lo fa da solo allora tanto vale modificarlo con la forza e la famiglia tradizionale che scompare, sostituita dalla gang e dalla loro struttura gerarchica. Insomma uno scheletro che poi verrà riproposto più avanti in modo simile su suolo giapponese con l’esplosione del fenomeno gang e della opere da esso ispirato (Shonan junai gumi, Akira, Battle Royale e via dicendo).
Passano più di dieci anni prima che la Paramount decida di adattare il romanzo di Yurick. Walter Hill si era fatto conoscere prima come sceneggiatore, in particolare di Getaway!, film diretto da Peckinpah con Steve McQueen, poi come regista di due opere: L’eroe della strada e Driver l’imprendibile. Quando l’offerta arriva sulla sua scrivania Hill è un regista in rampa di lancio e I guerrieri della notte, su cui Paramount punta molto, è un’ottima occasione. La casa di produzione, pur di rendere il film il più potenzialmente commerciale possibile, mette subito dei paletti: svuota la carica sovversiva propria del romanzo e, soprattutto, riduce al minimo la componente etnica nel cast. Quasi tutti i membri delle gang sono caucasici e non più afroamericani o latini e ogni riferimento allo scontro generazionale scompare. Rimane lo scheletro di questa gang, ingiustamente accusata e braccata, che dal Bronx deve tornare a Coney Island. La palla viene passata a Walter Hill cui viene data, in un ultimo afflato di quella che fu la New Hollywood, sostanziale carta bianca.
Una tragedia greca, un western, un musical, un cinecomic
Walter Hill vede e ha visto in Sam Peckinpah un maestro. Da buon seguace di “Bloody Sam” è sempre stato un amante dei western col desiderio di girarne uno. Ne I guerrieri della notte Hill vede una prima possibilità di infondere questo amore all’interno della storia e imprimerlo sulla pellicola. Il punto però è che lo svuotamento della componente sociale e di quella di rappresentazione etnica porta il film ad avere una struttura che non è nulla più di un esoscheletro. Non ha nulla nelle premesse di riconducibile o di attaccato alla realtà se non il richiamo al fenomeno delle gang e la mappa di New York. Per Hill la natura della storia, paradossalmente in questa nuova veste ancora più vicina a Senofonte e agli archetipi narrativi classici, rappresenta un’occasione speciale. Uno strumento per dar libero sfogo alla sua visione estetizzante e manieristica. Così il regista prende questo viaggio degli eroi e lo infonde di tutte le sue passioni. Il western di Peckinpah con le sue tinte anarchiche, maschiliste (e a tratti misogine) trova largo spazio negli eroi silenziosi che si ritrovano a scontrarsi per far ritorno al loro luogo di appartenenza.
Allo stesso tempo però Hill è un grande amante dei fumetti e quale occasione migliore di una serie di gang ognuna con le sue “maschere” per dar libero sfogo a questa passione? Inizialmente l’idea era quella di fare le transizioni con riquadri e splash-page fumettistiche, qualcosa di simile a quello che poi farà Ang Lee con il suo Hulk. Il tempo però è poco, la Paramount vuole anticipare competitor che proporranno altri film sulle gang. Si opta quindi per sostituire le transizioni fumettistiche con le scene della DJ. L’idea è perfetta. Gli stacchi sulle labbra della conduttrice radio introducono un narratore esterno che facilita tutto lo scorrere della vicenda. In più il programma radio permette un utilizzo della musica che diventa così diegetica, dando al film una nuova natura da musical. Basti pensare alla DJ che nell’ultima scena, per scusarsi con i Guerrieri esclama: “Immagino che a questo punto l’unica cosa che possiamo fare per voi è dedicarvi una canzone”. Western, musical e comics, tre componenti che da soli sarebbero in grado di riassumere tutti gli archetipi culturali dell’intrattenimento americano. Usati per mettere in scena una storia che prende vita da una tragedia greca. Buona parte dell’immortalità de I guerrieri della notte risiede in questo assoluto unicum di radici culturali che si intrecciano.
L’hip-hop, i videogiochi e gli Stati Uniti di New York
Abbiamo appena detto che parte dell’immortalità de I guerrieri della notte dipende dal suo essere una sorta di fonte primaria di intrattenimento. Una sorgente che nasce dagli archetipi narrativi classici e moderni, in grado di sopravvivere al tempo in quanto fuori da esso, un minerale puro. Il film di Hill ha però saputo anche predire e diventare una base, probabilmente in modo involontario, di fenomeni e tendenze culturali che si sarebbero poi verificate negli anni. Guardando nel 2023 I guerrieri della notte si possono notare tre caratteristiche che con ogni probabilità non erano state preventivate: l’anima hip-hop del film, la sua struttura simile a un videogioco e il modo unico di rappresentare New York. Oggi siamo soliti retrodatare la nascita dell’hip-hop ai primi anni ’70 ma di fatto non se ne ebbe l’accortezza per più di un decennio. Qualcosa stava cambiando, curiosamente come per i nostri Guerrieri proprio nel Bronx e proprio durante la tregua tra le gang ma ancora non si era identificata questa nuova corrente culturale. Eppure nel film di Hill qualcosa si può già, involontariamente, vedere. Su tutto il fenomeno del writing (una delle discipline fondamentali dell’hip-hop) e dei tag dei vari gruppi. A questo va aggiunta proprio la natura di musical del film che gli dona, nel suo insieme, un’anima urban che oggi ci arriva molto più forte di quanto non facesse nel ’79.
Se dell’hip-hop non si parlava figurarsi dei videogiochi, almeno per come li intendiamo e vediamo oggi. Ma guardando con occhio da giocatore I guardiani della notte, come si può non notare la sua struttura tutta fatta di corsa da punto A a punto B per raggiungere le fermate della metro (dei veri e propri check-point) e di scontri con le gang che rappresentano i boss di quell’area della mappa?
Infine veniamo alla rappresentazione di New York. La Grande Mela in quel periodo veniva descritta come devastata dalla perdizione da Scorsese e dal suo Travis Bickle. Hill riprende quegli stessi difetti, quella marcescenza ma ne rimane affascinato. Gli dona un’anima tutta sua che parte da quei peccati capitali e cresce fino a diventare un oggetto unico, lontano dal contesto reale ma allo stesso tempo ricco di vita. Se in Joker Todd Philipps prende Gotham e la porta alla New York di Scorsese degli anni ’70, Hill fa il procedimento inverso e porta sul grande schermo la vera e propria Gotham City. Una città che si appoggia ai criminali caratteristici dei quartieri, gli dona una casa, un luogo di rifugio a cui tornare. Una giungla di tenebre, luci al neon e vapore, da attraversare di corsa in una notte, con la mappa in mano e schivando gli ostacoli per poi tornare a casa all’alba sulle note di una canzone. Se poi si tratta di In the city degli Eagles (qui nella versione solista del chitarrista Joe Walsh) il ragionamento è concluso e il gioco è fatto.