Oggi ci sono davvero poche persone che non sanno chi siano i Måneskin. Quando, nel 2017, il gruppo romano si è presentato sul palco di X-Factor nessuno avrebbe mai potuto immaginare il successo che la band avrebbe avuto in soli quattro o cinque anni. Ma c’era già qualcosa, nella voce di Damiano David e nell’armonia caotica del gruppo che lasciava intuire che la strada dei Måneskin non sarebbe franata dopo il secondo posto ottenuto a X-Factor.
All’alba dell’uscita del loro terzo album, Rush!, i Måneskin sono sulla cresta dell’onda. Simboli di una nuova era del rock, glamour e affascinanti, capaci di abbattere qualsiasi confine nazionale, virali su quasi tutti i social. Eppure sembra essersi spezzato qualcosa. Tra le righe di un successo planetario, cominciano ad emergere le prime note stonate. E a questo punto comincia ad essere lecito domandarsi se i Måneskin stiano ancora sfruttando l’effetto novità o se questa “moda” stia già scivolando verso l’oblio.
La vittoria a Sanremo
La dote dei Måneskin è sempre stata quella di voler rompere le convenzioni della propria contemporaneità. Non tanto rivoluzionando il mondo e creando un nuovo linguaggio, ma mettendo la società di fronte ai propri limiti, pescando anche dalla tradizione di un passato – tra anni Settanta e Ottanta – che sembra più libero di questa modernità in cui ogni parola si può trasformare in una catena.
Con Zitti e Buoni, i Måneskin hanno fatto proprio questo: si sono presentati in un programma notoriamente “in giacca e cravatta”, dove persino canzoni sovraniste potevano raggiungere il podio, e hanno urlato il loro diritto di esserci, di esistere. Hanno preso l’idea e l’ideale del rock e lo hanno portato su un palco come quello di Sanremo che è stato il loro vero trampolino di lancio. Forse la loro vittoria non è legata solo alla qualità del brano. Forse la loro vittoria è legata soprattutto al riconoscimento dal pubblico: intere generazioni che finalmente vedevano in tv qualcuno in cui riconoscersi, qualcuno che urlava alle generazioni più anziane di stare “zitti e buoni”, di farsi da parte per permettere agli altri il diritto di esistere e di vivere secondo le proprie regole.
La vittoria di Sanremo, naturalmente, è stato il primo slancio di un tuffo che li ha portati poi al trionfo all’Eurovision Song Contest. Vittoria che ha permesso ai Måneskin di farsi conoscere oltre i confini italiani, spopolando in rete e diventando la colonna sonora di moltissimi video di TikTok e non solo. La generazione Z è stata dunque la prima a prendere la rabbia e la passione dei Måneskin e a renderla una sorta di bandiera generazionale. Una bandiera con cui è facile festeggiare i successi o anche il solo ritorno al Festival di Sanremo come super ospiti.
L’urgenza di dire qualcosa
Il successo dei Måneskin, in questo senso, è sempre stato legato a una sorta di urgenza: la band ha sempre avuto qualcosa da dire, una rabbia da sfogare attraverso le urla di bassi e batterie. Al di là della passione per la musica e del talento innegabile, i Måneskin hanno scritto canzoni in cui avevano qualcosa da dire, in cui la loro personalità e il loro trascorso si riversava in brani ora malinconici come Torna a casa o pieni di soddisfatta determinazione, come Morirò da re.
Nell’album Il ballo della vita c’era questo equilibrio perfetto tra rock e ballad, tra autodeterminazione e rabbia, tra la voglia di farsi sentire feroci e ammettere le proprie vulnerabilità. I Måneskin volevano raccontare cose precise e attraverso la musica ci sono riusciti. Con Teatro d’ira – Vol 1 questo equilibrio resiste ancora, anche se in modo meno affidabile. Non è un caso che l’album si apra e si chiuda con due brani che sono l’uno lo specchio e il rovescio dell’altro: Zitti e buoni e Vent’anni sono, sebbene con sonorità diverse, due dichiarazioni d’indipendenza. In entrambi i brani i Måneskin continuano a cantare il loro bisogno e desiderio di essere visti e ascoltati. Di essere creduti, contro chi pensa che ““c’hai solo vent’anni“.
Ma già con I wanna be your slave era chiaro l’intento di creare una hit, di costruire a tavolino qualcosa che avrebbe funzionato nell’industria musicale di oggi. Non si tratta di un “vendersi”, come molti haters hanno affermato nel corso di questi ultimi due anni: si tratta però di perdere quel bisogno di dire qualcosa. E quando non hai niente da dire, difficilmente le tue parole sopravvivranno alla prova del tempo.
Dimenticare le origini
Si arriva così a Rush!, il terzo e più recente album dei Måneskin, che è anche quello che ad oggi è stato più bistrattato. In effetti, ascoltando l’album si ha davvero la sensazione di essere davanti a un prodotto pre-confezionato. È come se i Måneskin si fossero seduti a tavolino e avessero cominciato a stilare una lista di caselle da riempire. I loro nuovi brani, che danno quasi tutti la sensazione di somigliare a qualcos’altro, sono gradevoli da ascoltare, alcuni così orecchiabili da diventare possibili tormentoni, ma sono vuoti. Non dicono niente di nuovo. Non dicono nulla di davvero sentito. È come se il successo avesse annebbiato le qualità narrative dei Måneskin, portandoli a dimenticare le loro origini, inclusa la lingua italiana.
Anche sotto i video dei nuovi brani su Youtube si legge un malcontento generalizzato per questa scelta di dedicarsi soprattutto a canzoni in inglese. Ma qui bisogna fare una piccola, scontata e necessaria precisazione. La musica può essere una terapia fortissima, ma cantanti e musicisti non esistono e/o lavorano per lenire le nostre ferite e i nostri traumi. Che ci riescano è una qualità aggiunta, una sorta di bonus: ma chi fa musica lo fa anche per guadagnare. Ed è indubbio che dedicarsi a canzoni anglofone porta più successo perché sono brani che si rivolgono a un pubblico più ampio.
Il problema dunque non è tanto aver scelto di cantare più in inglese che in italiano, ma quella di essersi in qualche modo “appiattiti” per piacere soprattutto agli americani, perché in ogni ambito artistico esiste il sogno tutto italiano di sfondare negli Stati Uniti. La sensazione è che i Måneskin abbiano fatto questo album di corsa – come anche il titolo sembrerebbe quasi suggerire – per cavalcare l’onda. E sebbene non si possa mai fare una colpa nel voler inseguire il successo, il risultato di questo album sembra suggerire che se il gruppo romano continuerà a produrre musica solo per accontentare gli altri, e non per raccontare e raccontarsi, il loro destino è quello di diventare una moda passeggera. Bellissima, certo, ma comunque aleatoria.
Per come stanno le cose ore, la sensazione è che i Måneskin siano a quel punto di svolta, a quel bivio in cui devono capire quale strada intraprendere e quale scommessa fare. Il talento per diventare iconici ce l’hanno, ma bisogna avere anche la pazienza e la lungimiranza di capire che cercare di accontentare tutti per non mancare di rispetto a nessuno non è un’opzione valida. I Måneskin funzionano meglio quando sono se stessi, senza sovrastrutture o imposizioni date dal mercato.