L’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha annunciato da pochissimo le candidature agli Oscar 2023, il maggior riconoscimento al cinema americano quest’anno arrivato alla sua 95° edizione. Se l’attesissima cerimonia di premiazione avverrà soltanto domenica 12 marzo a Los Angeles, noi nel frattempo abbiamo deciso di analizzare insieme le nomination alla statuetta più ambita e glamour del mondo del cinema, tra grandi conferme, sorprese, esclusioni clamorose e soprattutto tante, tantissime prime volte.
Guardando più attentamente i titoli, gli autori e le performance scelte dall’Academy, ci viene però da chiederci ancora una volta se l’associazione di addetti ai lavori di Hollywood più prestigiosa di sempre stia progressivamente cambiando in risposta ad un semplice afflato sociale che propone inclusività e diversità in termini di rappresentazione sul grande schermo, oppure se il terrore del politically correct continua ad influenzare la scelta dei candidati, o addirittura dei vincitori stessi. Capiamolo insieme.
C’è una prima volta per tutti
La 95° edizione delle nomination agli Oscar è stata quella del battesimo del fuoco per moltissimi autori ed interpreti; su tutti impossibile non citare il sorprendente esempio di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il film tedesco targato Netflix diretto da Edward Berger e tratto dal romanzo omonimo di Eric Maria Remarque entra negli annali del premio: è il primo lungometraggio tedesco a ricevere la candidatura al miglior film e la pellicola teutonica ad ottenere il maggior numero di nomination, ben 9 contro le storiche 6 ricevute nel 1982 da U-Boot 96 di Wolfgang Petersen.
E se guardiamo le cinquine degli interpreti, sia maschili che femminili, troveremo moltissime star alla loro prima, storica candidatura alla statuetta dell’Academy: Ana De Armas, Andrea Riseborough, Michelle Yeoh, Austin Butler, Colin Farrell, Brendan Fraser, Paul Mescal, Bill Nighy, Brendan Gleeson, Barry Keoghan, Brian Tyree Henry, Ke Huy Quan, Jamie Lee Curtis, Stephanie Hsu, Kerry Condon, Hong Chau. E la lista continua nelle categorie tecniche.
Inclusività? Non proprio.
Non fatevi ingannare dalle 11 nomination ottenute da Everything Everywhere All At Once. Il folle film scritto e diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert è di certo il titolo più allettante tra quelli candidati perché riesce a rispondere alla perfezione ai nuovi standard di inclusività e diversità che il sistema Hollywood sta sempre più inseguendo, tra slanci genuini e allineamento ad un sentimento generale di political correctness. Nella pellicola con Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis c’è veramente tutto, ovunque e allo stesso tempo: dal parossistico divertissement cinematografico che ironizza su cliché ed elementi fondanti del cinema asiatico, fino a tematiche sensibili quali l’immigrazione dei cittadini asiatici in Usa, la crisi economica, il rapporto transgenerazionale tra genitori e figli e, non ultimo, un ammiccamento alle minoranze LGBTQ. Un mix semplicemente irresistibile per l’ala dell’Academy più progressista, che difatti ha premiato la pellicola dei Daniels con il maggior numero di candidature della 95° edizione del premio.
Un’edizione però che non si è fatta scrupolo nello snobbare nelle rispettive cinquine interpreti come Viola Davis per The Woman King e Danielle Deadwyler in Till. Entrambe protagoniste di lungometraggi diretti da donne afro-americane che hanno saputo raccontare a modo loro e con successo di pubblico e di critica storie di black empowerment, si sono ritrovate a secco di nomination come miglior interprete femminile a favore di attrici quali Michelle Williams e Andrea Riseborough in lungometraggi decisamente più convenzionali. Uno sguardo cinematografico al femminile quindi che stenta a decollare anche in questa 95° edizione, se non fosse per le due candidature “simboliche” a Women Talking di Sarah Polley: miglior film e sceneggiatura adattata per una pellicola dominata da un ensemble fortemente femminile e femminista. Due nomination che, a conti fatti, ci sembrano più il risultato di un contentino per bilanciare slanci progressisti ad afflati più tradizionali e conservatori.
Ma l’Academy vota col cuore o con la testa?
C’è quindi da chiedersi se, ad oggi, tutti i membri votanti dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences facciano ricadere la scelta delle loro selezioni usando il cuore o la testa; in parole povere, se scelgono di votare i loro film ed interpretazioni preferite oppure se il clima socio-politico internazionale influenzi in egual misura il titolo o l’attore da inserire nel ballottaggio personale.
Nonostante gli slanci annuali nell’invitare al tavolo nuovi membri di estrazioni ed etnie differenti e di equiparare sempre di più la bilancia della gender equality (al 2022, il 67% dell’Academy è costituito da membri di sesso maschile, mentre il 33% da donne), a conti fatti candidature e vincitori degli Oscar sono determinati da una membership prettamente maschile che favorisce titoli dall’assetto più classico e dallo sguardo più sfacciatamente testosteronico. Perché togliendo le 11 candidature record di Everything Everywhere All At Once, a fare la parte del leone a livello squisitamente numerico ci sono titoli come The Fabelmans (7), Top Gun: Maverick (6), Elvis (8), Gli spiriti dell’isola (9), senza dimenticare lo stesso war movie Niente di nuovo sul fronte occidentale (9).
Tutto cambia affinché nulla cambi
Con questo non vogliamo sottintendere che i lungometraggi scelti dall’Academy non abbiamo un valore intrinseco né che possiedano qualità artistiche minori o maggiori rispetto agli altri contender, bensì che il possibile trionfo sulla carta del film scritto e diretto dai Daniels nella categoria principale andrebbe letto semmai con le lenti di un preciso lavaggio di coscienza agli occhi dello show business mondiale. L’Academy ha disperatamente bisogno di rimanere culturalmente rilevante in una società in costante e fluida trasformazione, dunque tanto vale salire sul carro del vincitore ed abbracciare i nuovi valori dell’inclusività e del politically correct per quel che si può.
Se è altrettanto vero che le lotte per l’affermazione e l’equiparazione delle minoranze e del mondo femminile sono e rimangono sacrosante, c’è da chiedersi a conti fatti e con quel dislivello tra membri maschili e femminili quanto veramente l’Academy si stia sempre più affacciando con slancio genuino ad uno sguardo cinematografico senza confini e costrizioni di lingua, identità e forma. Certo, trionfi recenti come quelli di Parasite, Nomadland e CODA sono forieri di una maggiore e meno velata sensibilità dell’accademia verso le tematiche più contemporanee, ma non cadiamo necessariamente nel tranello per il quale tutto ciò che luccica è oro. Perché poi a fare una bilancia tra ciò che dice il cuore e cosa dice la ragione, non possiamo lamentarci se il compromesso finale sono il film o l’interpretazione che mettono d’accordo le molteplici anime dell’Academy in lenta, ma costante trasformazione.