I più cinici magari diranno che questa che segue è la cronaca di un capolavoro annunciato. E forse, col senno di poi, è davvero così, e la serie tv The Last of Us, almeno per noi, era davvero destinata a diventare il nuovo show di punta della HBO. D’altronde da queste parti, così come in altri lidi in passato, non abbiamo mai nascosto la nostra passione per i videogiochi dei californiani Naughty Dog: ovvero la software house che più di tutti negli ultimi 15 anni, prima con la saga di Uncharted e poi con quella di The Last of Us, ha coniugato in modo brillante il divertimento e il coinvolgimento dei migliori action adventure con un certo tipo di narrazione da blockbuster hollywodiano e vette di poesia e lirismo da cinema d’autore.
Proprio per questo motivo, l’attesa era spasmodica e l’asticella altissima. Poiché già nel gioco originale del 2013 – e ancor di più nel suo sequel del 2020 o nel remake pubblicato solo pochi mesi fa – l’aspetto narrativo e le caratterizzazioni sia dei personaggi che delle ambientazioni erano assolutamente perfette e ricchissime di profondità e sfumature; e quindi la semplice verità è che sarebbe stato molto più facile sbagliarlo, questo adattamento, invece che azzeccarlo in pieno come poi è stato. E infatti i primi approcci tentati anni fa, con un unico film inizialmente affidato a una leggenda dell’horror quale Sam Raimi, dimostravano fin da subito di non aver realmente capito – come d’altronde era stato, fino ad ora, per tutti gli adattamenti da videogiochi, sia su piccolo che su grande schermo – quale fosse il vero spirito di questa storia. Di non aver mai realmente compreso cosa avesse attratto e affascinato i videogiocatori al punto tale di aver fatto vivere loro un’esperienza tanto forte, se non addirittura più intensa, di quella di romanzi o film ben più celebri.
Come avrete già intuito da queste prime righe di questa recensione della serie TV The Last of Us, la serie scritta dal Craig Mazin di Chernobyl e dallo stesso Neil Druckman (autore del videogioco e co-presidente di Naughty Dog), in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW dal 16 gennaio in contemporanea assoluta con HBO, ha infranto una volta per tutte questo tabù, diventando così il primo vero capolavoro tratto da un videogioco. E lo fa tradendo il materiale originale quando necessario, e rimanendogli fedele, quasi alla lettera, dove invece il videogioco aveva al suo interno già tutto quello che serviva per una storia indimenticabile: grandi personaggi, grandi dialoghi e una maturità invidiabile nel trattare temi universali.
C’era una volta un padre
Ma partiamo dal principio, da quel prologo ambientato nel 2003 che dà inizio alla storia di The Last of Us e fa capire fin da subito cosa ci attenderà per tutti i nove episodi che compongono la prima stagione: quando scoppia una letale pandemia causata da una mutazione del fungo Cordyceps, Joel Miller è un padre single che vive in Texas, nei sobborghi di Austin, con la figlia Sarah. Il suo istinto gli dice di provare a fuggire e lasciare la città con l’aiuto del fratello Tommy, ex soldato, ma ben presto deve fare i conti con la dura realtà di un mondo che sta già crollando e in cui tutto è ammesso pur di sopravvivere. E infatti quando lo rivediamo vent’anni dopo, nella zona di quarantena di Boston, è facile accorgersi che dell’umanità e di quella dolcezza paterna non è rimasto più nulla. Con lui ora c’è solo Tess, una donna forte e volitiva, altrettanto indurita da vent’anni di orrori che possiamo solo immaginare.
Joel e Tess sono dei contrabbandieri: vivono come tutti all’interno delle mura della città e sotto il rigido controllo del regime militare, ma a differenza di altri sono abituati a cavarsela anche all’esterno, in quelle lande ormai desolate dove imperversano dei terribili “mostri” che non sono altro che esseri umani impazziti dalla mutazione e per questo assolutamente letali. Joel vorrebbe lasciare Boston per andare verso ovest, alla ricerca del fratello che non vede più da anni, ma ha bisogno di una batteria per auto che sia ancora funzionante, merce ormai sempre più rara da trovare. Ad offrirgliela in cambio di una missione speciale arriva Marlene, leader delle Luci (Fireflies in originale, ovvero Lucciole), un gruppo “terrorista” che da anni combatte i militari ad ogni costo. La missione prevede il trasporto fuori città di un “pacco” speciale, una ragazzina quattordicenne di nome Ellie che sembra essere di vitale importanza per il gruppo ribelle. Da qui in poi comincia un’avventura on the road attraverso un’America quasi irriconoscibile e apparentemente priva di umanità. Comincia un viaggio che segnerà per sempre la vita di entrambi i protagonisti e che farà riscoprire a Joel sentimenti ed emozioni che credeva perduti per sempre.
L’importanza di essere Joel ed Ellie
Chiunque abbia seguito anche solo un minimo gli annunci relativi a questa nuova serie HBO, avrà notato come gran parte dei fan e conoscitori del videogioco fossero preoccupati del casting dei due protagonisti. Fin dai primi annunci, sono arrivate le immancabili polemiche per alcune caratteristiche fisiche dei due attori principali Pedro Pascal e Bella Ramsey, polemiche spesso molto sterili e superficiali perché siamo tutti perfettamente consapevoli che non sono certo i lineamenti fisici a rendere un personaggio così amato per quello che è. Ma nel caso di The Last of Us è particolarmente significativo notare che questo attaccamento quasi ossessivo per i due protagonisti sia in realtà una conseguenza del successo della storia stessa: mai come in questo gioco/serie Joel ed Ellie non sono solo i protagonisti di The Last of Us, ma l’intera essenza dell’opera. Perché più andiamo avanti con gli episodi e con la storia e più ci rendiamo conto di come sia proprio il rapporto tra i due a rappresentare e contenere tutto quello che l’opera ha da dirci. E non è un caso che i due attori che nel videogioco li avevano interpretati magistralmente (Troy Baker e Ashley Johnson) abbiano entrambi trovato spazio qui nella serie (più precisamente, negli ultimi due episodi) con due piccoli ruoli che sono un vero e proprio omaggio al loro talento ma anche alla pesante eredità che hanno lasciato.
Perché Joel ed Ellie partono come due personaggi apparentemente incompatibili e opposti, ma insieme formano una coppia memorabile. Lui è indurito da 20 anni di dura sopravvivenza, non crede più in nulla se non in se stesso e non si degna nemmeno di ripensare al passato, figuriamoci a un futuro; la ragazza è invece nata dopo la pandemia, il nostro mondo non l’ha mai conosciuto e tutto quello che vede e prova rappresenta qualcosa di nuovo, uno stimolo, una speranza, un desiderio di cominciare a vivere come non le è mai stato permesso di fare. Intorno a loro c’è un mondo sì spietato, ma che in qualche modo è ripartito e ha le sue regole e le sue dinamiche. Sono loro, con il loro viaggio e la loro missione, a rappresentare un cambiamento, in alcuni casi perfino a portare un po’ di speranza. Ma è appunto Joel il primo a non credere più in nulla e a non vedere in Ellie nulla di più che un “carico” da trasportare.
Ma che Ellie sia molto di più di tutto questo è evidente fin da subito per noi spettatori: ed è merito tanto della scrittura di Mazin & Druckmann, quanto della performance energica e vitale di Bella Ramsey, se la sua Ellie ci entra nel cuore fin dalle prime scene. E riesce a sciogliere qualsiasi dubbio si potesse avere sulla sua scelta, per poi conquistarci sempre di più, episodio dopo episodio, fino a portarci alle lacrime in più di un’occasione. Lo stesso vale per Pedro Pascal, che fisicamente è tanto differente dal corrispettivo del videogioco quanto lo è la Ramsey. Anche nel suo caso però è il talento che conta e mai come in questa occasione Pascal dimostra di meritare tutta la fama e il successo che ha ottenuto finora: non più “protetto” dal casco del Mandaloriano o dall’esuberanza del personaggio de Il trono di Spade (Oberyn Martell) che l’ha reso celebre, l’attore si mostra al pubblico delle grandi occasioni con una performance drammatica di grande intensità e profondità emotiva che, ne siamo praticamente certi, lo porterà quantomeno a una candidatura all’Emmy.
Un adattamento molto fedele videogioco…
Abbiamo più volte parlato di adattamento perfetto, ed è effettivamente la prima cosa che ci viene in mente parlando di questa nuova serie HBO. Perché la storia di The Last of Us, pur prendendo qualche doverosa scorciatoia, rimane esattamente la stessa del videogioco. Ed è sicuramente un bene considerata la qualità di partenza. Non è un caso che più la serie va avanti e più gli ultimi episodi finiscano con l’assomigliare sempre di più al videogioco, tanto nell’ambientazione e negli avvenimenti che nelle sensazioni che lasciano allo spettatore. Alcuni dialoghi rimangono immutati, altri addirittura arricchiti, aggiungendo ulteriore profondità dove necessario, mentre in altri casi viene spiegato qualcosa di più al più esigente pubblico televisivo, senza mai però arrivare ad essere troppo didascalici. E dove non arrivano i dialoghi ci pensa la struggente colonna sonora del premio Oscar Gustavo Santaolalla, assolutamente perfetta tanto nel videogioco che in questa serie.
Un aspetto che aveva molto colpito i più attenti quando la serie era stata annunciata era la presenza non solo tra gli sceneggiatori ma anche tra i registi dello stesso Neil Druckman. Come a dire appunto che The Last of Us, anche da un punto di vista visivo e di scelte di regia, non può prescindere da chi quell’universo l’ha creato e plasmato. Al tempo stesso però la serie può contare su un nome importante quale Craig Mazin, già premiato creatore e regista della miniserie Chernobyl, ma anche di registi di talento e dal piglio molto autoriale quali l’iraniano Ali Abbasi o la bosniaca Jasmila Zbanic, che si alternano ad altri nomi più noti e vicini al mondo delle serie TV quali Jeremy Webb, Liza Johnson o Peter Hoar. Scelte atipiche che evidenziano la doppia natura del progetto, perfettamente a metà tra le ambizioni mainstream de Il trono di spade o The Walking Dead e la qualità e la profondità da cinema d’autore che è tipica di molte alte produzioni HBO.
…ma che non ha paura di tradire quando è necessario
Proprio questa doppia ambizione è in realtà l’elemento più affascinante e sorprendente di questa produzione, che è tanto fedele al materiale originale in molti aspetti quanto coraggiosa nel prendersi dei rischi, anche a costo di far arrabbiare (e molto) i fan. È il caso per esempio del bellissimo e struggente episodio 3, in cui la serie si sofferma su due personaggi secondari (interpretati dagli ottimi Nick Offerman e Jeffrey Pierce) per mostrarci la pandemia da un altro punto di vista, sfruttando anche, in modo intelligente, l’esperienza vissuta da tutti noi in prima persona negli ultimi anni. O dell’altrettanto poetico episodio 7, in cui viene approfondito, con un bellissimo flashback, il personaggio di Ellie. Ma in realtà in tutta la serie c’è sempre un’alternanza pressoché perfetta tra l’azione – e quindi la necessità di portare avanti la storia – e l’approfondimento non solo dei protagonisti ma di tutti coloro che popolano questo mondo in rovina. Ovviamente al centro di tutto ci sono sempre Joel ed Ellie, e se la serie non arriva mai a diventare davvero corale, riesce comunque a raccontarci più storie e più prospettive.
Resisti e sopravvivi
Perché in fondo l’altro grande protagonista di The Last of Us è questo universo martoriato da una pandemia che ha reso tutti dei mostri, anche coloro che non son stati toccati dal fungo. A differenza di tante altre opere che raccontano eventi non troppo dissimili, in questa serie vediamo il mondo non mentre lotta per sfuggire all’apocalisse (vedi The Walking Dead e i suoi spinoff) e nemmeno subito dopo che questa è avvenuta (come ne L’ombra dello scorpione di Stephen King). Tranne che in brevissime occasioni, non vediamo nemmeno come si è realmente diffuso il contagio – ma il film Contagion di Sodebergh viene comunque citato, anche se in modo quasi ironico. Quello di The Last of Us è un mondo in cui l’umanità si è già arresa da tempo, tanto che la vegetazione (funghi in primis) hanno già preso controllo su gran parte delle metropoli e in cui i pochi sopravvissuti devono continuamente lottare per combattere non solo i mostri (umani e non) ma anche le intemperie o la scarsità di cibo.
“Resisti e sopravvivi” (in originale “Endure and survive“) è un frase che viene citata spesso tanto nel videogioco che nella serie in modo scherzoso. Ma è di fatto il motto di chiunque sia ancora vivo nel mondo di The Last of Us. Ma sopravvivere per cosa? A quale scopo? A cosa serve se non si ha alcuna speranza e nessuna prospettiva di miglioramento? Ognuno dei personaggi che Joel ed Ellie incontrano sulla loro strada sembra avere un proprio personalissimo scopo per andare avanti, e scelgono di rimanere in vita per quell’unico motivo. Ma ciò che a noi spettatori preme sapere è se c’è qualcosa in più per cui vivere, qualcosa che magari può ancora dare speranza all’umanità intera. Soltanto alla fine dell’ultimo splendido episodio capiremo qualcosa in più sulle persone con cui abbiamo intrapreso questo lungo e pericoloso viaggio. E probabilmente anche su noi stessi. Perché a volte, per tornare a vivere, basta solo un giuramento e un okay. O forse no.
Future Days
Arrivati alla fine di questa prima stagione, saranno tante le domande che gli spettatori si porranno. E siamo certi che, come successo a noi, in molti saranno emozionati e commossi quando scorreranno i titoli di coda; tanti altri, però, potrebbero rimanere delusi e arrabbiati da un finale ambiguo e apparentemente “monco”. Ed è anche questa l’essenza di The Last of Us, così com’è sempre stato fin dal 2003. Con la differenza che oggi c’è la consapevolezza di una Parte II della storia già realizzata come videogioco e che a questo punto certamente diventerà anche una seconda stagione della serie. Ancora più attesa, ancora più discussa, ancora più emozionante. Il nostro invito, in questo caso, è di non leggere nulla, di non cercare spoiler, di godervi questa attesa. Perché The Last of Us ha ancora tante sorprese in serbo per tutti noi. Anche se la prima, di certo la più bella e positiva, è stato proprio regalarci una serie TV all’altezza della sua fama.
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La recensione in breve
La HBO non si smentisce mai, e anche nel caso di The Last of Us fa sembrare tutto facile, quando non lo era affatto. Per nove episodi veniamo letteralmente trasportati in un universo terribile e bellissimo al tempo stesso e seguiamo la crescita e l'evoluzione di due personaggi complessi e affascinanti come raramente capita di trovare in una prima stagione. Regia, fotografia, dialoghi e recitazioni sono di livello eccelso, la musica perfino di più. Al netto di qualche piccola concessione "mainstream" a livello di scrittura, è tutto davvero perfetto. Di più non era possibile desiderare.
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Voto ScreenWorld