In un’epoca in cui si guarda tanto, forse anche troppo, al cinema americano, ci dimentichiamo che abbiamo e abbiamo avuto grandi autori italiani che hanno dato lezioni a quei registi americani a cui rivolgiamo lo sguardo con tanta ammirazione. Registi italiani che hanno fatto la storia del cinema mondiale, ispirando, provocando, disturbando, infrangendo ogni possibile regola, rischiando. Artisti le cui opere sono ancora oggi oggetto di forte discussione, tra appassionati e detrattori, ma che il loro messaggio continua ad essere un profondo segno di come il cinema, soprattutto quello di genere, con i suoi “mostri” è sempre stato il più veritiero specchio della nostra realtà e società.
Uno tra questi autori è indubbiamente Ruggero Deodato, denominato dai francesi Monsieur Cannibal, proprio per quel film così dibattuto che tanto l’ha fatto conoscere in tutto il mondo, Cannibal Holocaust.
La notizia della sua scomparsa ci è arrivata questa mattina. Ottantrè anni. Una filmografia di tutto rispetto, fonte di enorme ispirazione per registi come Oliver Stone, Quentin Tarantino o Eli Roth che, negli ultimi anni, non solo lo aveva omaggiato (con un poco brillante The Green Inferno) ma ci aveva anche lavorato insieme, facendolo salire a bordo come attore, proprio nella parte di un cannibale, in Hostel 2.
Una persona incredibile. Gentile. Umile nel suo essere regista, restando fedele a se stesso anche se più volte gli si sono presentate scorciatoie “più semplici” per il successo. Estremamente sicuro di sé e delle sue convinzioni sul suo cinema, su se stesso, sul cinema italiano e su quello internazionale. Un grande amante e conoscitore della settima arte e che con il cinema ha fatto ben sentire la sua voce, il suo pensiero, in un momento storico in cui autori come Tobe Hooper, Wes Craven, John Carpenter, George Romero (regista per cui, come lo stesso Deodato ha ammesso, non aveva una grande simpatia), attraverso il cinema di genere, quello horror con i suoi sottogeneri, avevano cominciato a parlare aspramente di società americana, capitalismo, politica, guerra ed ipocrisia. E Deodato non è stato da meno. Denuncia i mass media proprio con il suo film più divisivo e controverso, Cannibal Holocaust, e ci domanda con brutale realismo chi siano i reali cannibali, i veri “mostri” che depredano, massacrano e violentano, mentre immagini agghiaccianti ripresi da una videocamera passano su un piccolo schermo sotto gli occhi quasi impassibili di un gruppo di incravattati.
Però, ci raccomandiamo, non chiamatelo re dell’horror o regista di horror. Non celebratelo per un genere che, in fondo, non ha mai amato completamente. Non la prendeva molto bene. Il cannibal movie è stato il fiore all’occhiello della carriera di Deodato, ma lui di film ne ha fatti tanti e di generi differenti (non ha mai apprezzato restare legato ad un unico genere). Del resto, per lo stesso regista, Cannibal Holocaust non è un horror bensì un film neorealista, dove si è spinto oltre il limite per renderlo il più veritiero e realistico possibile, con tutte le conseguenze, tra leggende metropolitane e realtà. Durante Festival, interviste, incontri con il pubblico o masterclass, se si provava a portare il discorso unicamente sull’argomento horror, il maestro romano era ben abile a rimproverarvi e portare la discussione da tutt’altra parte.
Non mi piace farmi catalogare o etichettare sotto queste definizioni, “gore, splatter, horror”. Se ho messo in scena una violenza così truce l’ho sempre fatto perché quello era il grado di violenza che esisteva nella realtà di un dato contesto storico e geografico.
Del resto a Deodato le etichette sono piaciute sempre molto poco, considerandole il grande ostacolo del cinema italiano che, negli ultimi decenni, per lui aveva perso completamente mordente, non tanto a livello artistico, quanto più a livello produttivo, costringendo i più giovani talenti a commediole o pellicole mediocri, salvo rare eccezioni dalla dubbia potenzialità all’estero.
Eppure il cinema horror da Deodato ha preso tanto, tantissimo, sia come messaggio che come stile. Basterebbe anche solo pensare ai mockumentary (falsi documentari) o ai found footage usciti dagli anni ’90 in poi, come The Blair Witch Project, REC, Cloverfield e Diary of the Dead, quest’ultimo proprio di Romero.
Ruggero Deodato, le origini: da Rossellini agli spot passando per i cannibali
Nato a Potenza, cresciuto in Danimarca, adottato da Roma. Sicuramente non si può dire che la vita di Ruggero Deodato non sia stata emozionante e variegata fin dall’inizio. Inizialmente studia come pianista e poi diventa uno dei più grandi registi seminali raccogliendo, purtroppo, molto tardi il suo successo: più e più volte in Italia non verrà associato a quello che è stato il suo lavoro più importante ma ricordato per slogan e spot che hanno sempre fatto storcere le labbra al regista, che veniva guardato al panorama internazionale con più rispetto. Ma del resto, non era la fama o il non riconoscimento ciò che realmente interessava a Deodato, piuttosto quella censura terrificante subita, con cui ha sempre provato rancore, che mai e poi mai dovrebbe essere applicata nei confronti di un autore, di un’artista.
Trovo assurdo che si censurino film per il cinema, in cui totale è la libertà di scelta del cittadino nel decidere se e come andare a vedere una pellicola, rispetto alla Tv che invece è aperta e accessibile a tutti, soprattutto ai bambini, dove invece passano violenze di ogni genere. A me piaceva sfidare la censura, vedere le loro reazioni, anche se poi alla fine erano loro ad aver sempre ragione.
Ruggero Deodato ha avuto modo di imparare e lavorare con i grandi maestri del cinema italiano, a cominciare da Roberto Rossellini che fu il primo a dargli una vera e propria possibilità come aiuto regista in film come Il generale della Rovere e Viva l’Italia, motivo per il quale Deodato ha sempre amato il cinema della realtà, il neorealismo, per quanto è con il cinema di genere che ha trovato la sua maggior forma di espressione.
Poi arriva il turno di Sergio Corbucci, Riccardo Freda e, soprattutto, Antonio Margheriti, dove lavorerà come aiuto regista a film di culto come Danza Macabra, una delle pellicola manifesto per il cinema gotico degli anni ’60 italiano. Ed è proprio con Margheriti che Deodato debutta alla regia nel 1964 con Ursus, il terrore dei kirghisi, per quanto poi la vera e propria opera prima di Ruggero Deodato si attribusce a Gungala la pantera nuda nel 1968 con lo pseudonimo di Roger Rockefeller, uno dei tanti che il regista adotterà (come tanti altri colleghi) in quegli anni.
La fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, sono gli anni dell’esplorazione per Deodato tra generi, stili e soprattutto pubblicità, il mezzo che più gli permetterà di farsi conoscere, creando per brand famosi dei veri e propri tormentoni, come ad esempio:
Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita!
Nelle interviste più recenti di questi ultimi anni, Deodato ha sempre detto di non aver mai lasciato del tutto la pubblicità e la televisione, di aver sempre lavorato nonostante fosse diventato un campo più per i giovani.
Però a Deodato non “va giù” che parte del successo pubblicitario sia dovuto alla presenza della compagna dell’epoca, Silvia Dionisio, e che spesso le chiamate arrivavano solo a condizione che lei prendesse parte allo spot in questione. Il suo lascito doveva essere più forte, più personale, più rivoluzionario. Sulla scia del successo di Il coltello nell’acqua di Roman Polański, Deodato torna alla regia con il thriller erotico Ondata di piacere, ottenendo un buon successo e riuscendo a rilanciare il suo nome, per poi dirigere l’anno successivo il suo unico poliziottesco, uno dei film più conosciuti del regista, Uomini si nasce poliziotti si muore. Uno dei film più violenti, ma dal velo ironico, per il genere, “nato” dallo stesso vissuto a Roma del regista e dalla perfetta conoscenza del tessuto sociale, quello ancora fortemente dominato da una malavita crudele e feroce. Il film andò talmente tanto bene che si pensò subito ad un sequel, mai arrivato.
L’anno della svolta arriva però nel 1977 con Ultimo mondo cannibale e la nascita della Trilogia dei cannibali che consacrò letteralmente Ruggero Deodato al cannibal movie e al titolo di Monsieur Cannibal.
Cannibal Holocaust e la nascita di Monsieur Cannibal
Ultimo mondo Cannibale nasce in origine come il sequel di Il paese del sesso selvaggio del 1972 di Umberto Lenzi e, infatti, doveva essere girato dallo stesso Lenzi. Il progetto passò nelle mani di Deodato che utilizzò gli stessi attori del film precedente, Ivan Rassimov e Me Me Lay, e mostrando già un certo livello di crudezza e violenza; infatti, il film fu il primo in Italia a mostrare atti di cannibalismo. Inutile dire che la pellicola venne fortemente censurata all’estero, in modo particolare in Svezia dove tagliarono ben 10 minuti.
Deodato affermando che l’idea del film era partita proprio da un evento “realmente accaduto”, ovvero che un figlio di Rockfeller cadde con il suo Cessna in una foresta equatoriale e ai tempi si disse che dei cannibali se lo mangiarono.
In realtà l’interesse per il mondo cannibale e tribù indigeni parte molto prima per il regista, come lui stesso ha più volte affermato, attraverso la visione di alcuni documentari e riviste, in particolar modo nel 1972 quella di National Geographic, “Stone age men of the philippines”. Da quel momento in poi è partita una ricerca approfondita e antropologica sul mondo cannibale dei tempi passati, arrivando a partorire letteralmente la Trilogia dei Cannibali, composta da: Ultimo mondo cannibale, Cannibal Holocaust e Inferno in diretta.
Tutte e tre le pellicole, come ribadito dallo stesso Deodato, si ispirano allo stile di Gualtiero Jacopetti, creatore del mondo movie, conosciuto anche come shockumentary (da non confondere con il mockumentary), ovvero un sottogenere derivante dal film documentario e dall’exploitation il cui obiettivo era quello di sconvolgere lo spettatore, attraverso un’insistente morbosità, con temi ed immagini violenti e controversi, mantenendo però in apparenza la forma del documentario.
I tre film hanno elementi in comune, come appunto lo stile del falso documentario (mockumentary) e la tecnica del found footage, sequenze di iper-violenza e ambientazioni tribali. E inoltre, tutti sono stati brutalmente censurati e vietati ai minori di 18 anni, in modo particolare Cannibal Holocaust la cui storia ha dato e ha continuato a dare, non poche gatte da pelare al regista potentino.
Io non ho voluto fare uno splatter, io ho voluto fare una denuncia. I giornalisti vogliono fare uno scoop e dove non c’è lo creano e nessuno dice nulla. Io invece faccio un film e me lo tagliano, me lo vogliono bruciare, mi mettono i 18 anni.
Cannibal Holocaust arriva nel 1980. Fondamentalmente è un film girato in due modi che denotato due parti: la prima, The Last Road to Hell, girata in 35mm; la seconda parte, The Green Inferno, è girata in 16mm con una presenza totale della macchina a mano con la pellicola graffiata dallo stesso Deodato per rendere ancora più realistico l’effetto documentaristico e poco professionale.
Nonostante il film venne bandito in 33 Paesi, violentemente censurato in Italia, sequestrato e ritirato dal mercato per 4 anni a causa di alcune sequenze di torture di animali, con lo stesso Deodato processato, Cannibal Holocaust è stata una delle pellicole più importanti del periodo, seminale tanto per lo stile quanto per i contenuti. Non ha semplicemente dato il via al Cannibal Boom, ma ha aperto una lunga e profonda riflessione su come fare pellicole di denuncia ed analisi della società contemporanea, con focus particolare nei confronti dei mass media, quegli stessi che hanno per primi messo alla gogna il film di Deodato.
Denuncia e critica: chi sono i veri cannibali?
La visione dei selvaggi di Ruggero Deodato è ben chiara e ce lo fa capire fin dalle prime immagini del film. Non è la giungla ad essere il fulcro di violenza, brutalità e bestialità, bensì la metropoli. Non è la mancanza di vestiti o la presenza di armi rudimentali a rendere selvaggio un essere umano, ma il suo comportamento, anche se ben vestito e “civilizzato”.
Deodato provoca fin dalle premesse del film, quando una troupe televisiva si reca nella giungla Amazzonica per girare un documentario sul cannibalismo di una tribù indigena, restando però delusi dalla tendenza pacifiche dei nativi. Decidono così di provocarli in modo sempre più violento, brutale e perverso, per poter ottenere del materiale sensazionalistico con cui ritornare a casa e svoltare per sempre la loro esistenza. Come si dice in questi casi, il fine giustifica i mezzi?
Il film mostra con una brutale crudezza come l’uomo civilizzato possa sfogare le più perverse fantasie giustificando il tutto come un fine lavorativo, completamente privato di quei vincoli imposti dalla metropoli, dalla società, dalla civiltà e come senza queste regole possa trasformarsi in una bestia famelica, finendo per divorare anche se stesso. Alla sfrenata violenza, i nativi esasperati decidono di reagire con altrettanta violenza e il nastro successivamente ritrovato, che costituisce la seconda parte del film, diventa il focus di ingrandimento per poter analizzare i fatti così come sono realmente avvenuti.
È palese fin da subito come Deodato porti l’attenzione sul sensazionalismo mediatico, quello che ancora oggi impazza con morbosa violenza, reso ancora più di facile diffusione grazie all’uso dei cellulari. Non importa più quale sia la verità, l’importante è confezionare il miglior scoop possibile, brutale e scioccante, che porti ad indignare l’opinione pubblica, quella stessa che probabilmente sotto il bell’abito nasconde un animale ancora più feroce. Del resto, quante volte abbiamo visto video di gente intenta a filmare anziché aiutare un uomo che veniva ammazzato in mezzo alla strada? Di esempi recenti ce ne sono anche troppi.
E pensiamo proprio al cinema, a quei film precedentemente citati che prendono questo espediente per creare narrazioni che denuncino questo atteggiamento. Il famoso
“Stai continuando a girare, Pablo?” alla fine di REC. Non importa se si è sul punto di morte, l’importante è lasciare una traccia, un segno indelebile, uno scoop che possa portarci al successo, anche se da una bara sottoterra difficilmente potremo godercelo.
Ruggero Deodato anticipa i tempi e lo fa senza peli sulla lingua. Lo fa con un assoluto e feroce realismo, forse cadendo a sua volta nella trappola del “fine che giustifica i mezzi”. Lo fa portando una troupe intera nella giungla, costringendoli a girare in situazioni folli, estreme. Curando nei minimi particolari un’opera che a distanza di trent’anni viene eletto come film di culto, rivoluzionario e seminale, per quanto ancora adesso le controversie su questo titolo impazzano dividendo ferocemente.
Deodato lasciava allo spettatore il compito di rispondere alla domanda: chi è il vero cannibale, per quanto lui una risposta già la fornisce all’interno della pellicola. Ma la domanda, forse, per questa pellicola così critica è un’altra: cosa vogliamo davvero leggere nel film?
Per quanto fosse palese l’intento di Deodato, da contestualizzare (cosa che raramente viene fatta) con l’epoca in questione, è stato più volte completamente travisato, forse avvalorando ancora di più la tesi di sensazionalismo mediatico del regista. Il film è stato considerato razzista e neo-imperialista, perpetuando lo stereotipo dell’inferno verde con popolazioni indigene selvagge e cannibali. E ancora, Deodato viene accusato di essere lui l’unico a voler fare del sensazionalismo, confezionando uno snuff movie il cui scopo è solo quello di impressionare, per far parlare di sé. Un film vuoto. Senza sostanza e che non lascia nulla. (Perdonali Ruggero, se puoi).
Queste critiche, che con il tempo hanno perso di spessore, lasciando emergere le citazioni, l’importanza dello stile, gli omaggi e i film che sono nati da questa pellicola, da Assassini Nati a The Blair Witch Project, arrivando allo stesso The Green Inferno (non del tutto apprezzato da Deodato, e diamogli torto!), non fanno altro che confermare quanto l’occhio umano in troppe occasione si soffermi solo su ciò che vuol vedere e non su quello che le immagini stanno davvero raccontando. Ricordate il mito della Caverna di Platone? Ecco, film come Cannibal Holocaust, su cui si può assolutamente discutere sulla loro brutale estetica, conferma esattamente questo, di quanto siamo schiavi delle nostre ombre e spesso non ci rendiamo conto che il mondo è ben diverso là fuori, molto più vasto, variegato ma anche selvaggio di quanto si voglia credere.
E per quanto l’Italia voglia dimenticare in troppe occasioni l’importanza di un film come questo, nel bene e nel male, noi sappiamo oggi come ieri quanto Ruggero Deodato, come altri grandi maestri del cinema italiano, abbia influenzato e sia stato fondamentale per la storia del cinema mondiale.
Buon viaggio maestro e grazie!