Dopo essere stato presentato in anteprima nazionale ad Alice nella Città lo scorso ottobre, ora The Fabelmans di Steven Spielberg ha finalmente raggiunto la sala, sempre più lanciato verso la prossima stagione dei premi.
The Fabelmans è forse il film più intimo e sentito di Steven Spielberg, un racconto autobiografico che è al contempo una lettera d’amore al cinema, alla magia che riesce a creare mischiando luce e immaginazione.
La storia, infatti, segue le vicissitudini di un ragazzo che, dopo aver visto un film da bambino, rimane in qualche modo ossessionato dalla settima arte, sentendola scorrere nelle vene come un secondo flotto di sangue che porta ossigeno al cervello. Mentre intorno a lui la sua famiglia affronta traslochi e distacchi, il protagonista continua a cercare nel cinema non solo la propria arte, ma anche una via di fuga e, forse, soprattutto, un modo per raccontarsi.
Tanto dalla critica di settore quanto dal pubblico, The Fabelmans è stato accolto con un calore immenso, ma non inaspettato. Quando Steven Spielberg porta un film al cinema sembra che non ci sia possibilità di errore, nessun rischio di non venir compreso o di venire criticato. Ma la vera domanda è forse questa: perché a Steven Spielberg non è permesso sbagliare?
L’affetto di una generazione
La carriera di Steven Spielberg è un vero e proprio viaggio all’interno della settima arte, un’avventura che non disdegna nessun genere ma che, al contrario, si inoltra nei meandri di racconti differenti, che possono andare incontro al gusto di un pubblico sempre più ampio. E sicuramente questo è uno dei tratti distintivi di Spielberg, una delle caratteristiche che lo fanno tanto apprezzare: non si siede mai sugli allori e che siano alieni, pirati o nazisti, Spielberg trova sempre una chiave di lettura per arrivare al cuore dello spettatore.
Soprattutto, però, Steven Spielberg è l’autore di molti film che tantissimi spettatori hanno visto durante l’infanzia. In quanti, da bambini, hanno passato le vacanze di Natale guardando Hook – Capitan Uncino? In quanti, d’estate, avevano timore a entrare in acqua dopo aver visto Lo Squalo? Quanti di noi si sono commossi con Elliot dopo aver visto E.T.?
Spielberg ha realizzato alcuni film per ragazzi che molti hanno visto davvero quando erano solo dei ragazzi: soprattutto, però, la produzione di Spielberg ha fatto sì che si creasse un vero e proprio immaginario collettivo, un grande calderone di pellicole che hanno creato il nostro gusto. La saga di Indiana Jones o quella di Jurassic Park fanno parte non solo della storia del cinema, ma del nostro bagaglio culturale che, misto alla nostalgia, ha fatto sì che Spielberg diventasse il poeta dei nostri giorni migliori, dei nostri ricordi più belli. In altre parole, vogliamo bene a Steven Spielberg. E quando vuoi bene a qualcuno accetti che sia capace di sbagliare, ma poi tendi a dimenticarlo.
L’emozione e la partecipazione
Quando ci si avvicina alla stagione dei premi, dai Golden Globes ai Premi Oscar, esiste una frase che viene ripetuta a memoria dai vari detrattori. La frase secondo cui un film “è stato confezionato appositamente per gli Oscar“. Si tratta di un’accusa rivolta a quei lungometraggi che hanno i tratti distintivi che piacciono all’Academy e che molto spesso alcuni cinefili tendono a disprezzare.
Questo giudizio, però, non ha mai toccato davvero la produzione di Spielberg. Nonostante i suoi film siano spesso rassicuranti, semplici nel racconto e onesti fino al midollo, quasi nessuno punta il dito contro il regista. Questo, naturalmente, ci porta al punto iniziale: a Steven Spielberg è concesso sbagliare?
La risposta è sì, ma con affetto. I film di Spielberg non sono tutti perfetti, anzi. Il recente West Side Story è forse la prova più recente di tale assioma. Ma con Spielberg, tanto la critica quanto il pubblico, tendono a sorvolare su vari difetti o manchevolezze. Perdoniamo a Steven Spielberg cose che in un altro autore ci sembrano ostacoli invalidanti. Perché usare allora due pesi e due misure?
A Spielberg vogliamo bene. Non solo per i motivi elencati nel precedente paragrafo, ma perché il metteur en scene è un artista che sa usare le emozioni. Senza mai ricorrere ai facili ricatti emotivi, che sono sintomo di una pigrizia intellettuale, Spielberg sa come “giocare” con le emozioni del pubblico. E il motivo per cui lo sa è che in ogni film che realizza mette in gioco anche le sue, di emozioni.
Quando guardiamo un film di Spielberg non sentiamo la presenza di un regista, non avvertiamo il peso dell’ego smisurato di un uomo che è diventato quasi il simbolo della settima arte. Sentiamo invece la meraviglia di una persona che vuole raccontarci una storia. Spielberg partecipa al racconto, ci prende per mano e ci conduce nel suo mondo: non per farci vedere quanto è bravo, ma per farci scoprire la sua stessa meraviglia. È come un bambino che prende in mano un adulto per fargli vedere qualcosa di assolutamente quotidiano, trasformato però dalla straordinarietà dello sguardo.
Spielberg dunque smette di essere un “mestierante” al di là del muro invisibile della quarta parete: diventa uno di noi, un amico che vuole condividere le sue emozioni, che piange con noi. Soprattutto è un autore che si è sempre messo in gioco – lo ha dimostrato anche la volontà di girare l’ultimo videoclip di Marcus Mumford, ad esempio – e che è alla continua ricerca di meraviglie e sorprese. Proprio come qualsiasi spettatore che si siede in una sala buia.
Il costante incoraggiamento
Forse uno dei motivi principali del motivo per cui abbiamo la percezione che Steven Spielberg non possa sbagliare è perché lo stesso regista ci ha incoraggiato costantemente a credere che tutto era possibile. Se si guarda alla sua filmografia da un certo punto di vista si ha chiara la sensazione che l’unica cosa che il regista ha fatto nel corso di questi decenni è rassicurarci riguardo al fatto che tutti – bambini, eroi e persino truffatori – possono riuscire in tutto. Che sia un uomo bloccato in un aeroporto o un giocatore di videogame “intrappolato” in una realtà virtuale, i protagonisti di Spielberg sono sempre creature che riescono a ottenere tutto quello che si sono prefissati.
Abbiamo bisogno di credere a questa favola che Spielberg ci racconta con i toni placidi di un nonno (o uno zio) affettuosi. Abbiamo bisogno di credere in queste storie, perché sono quel tipo di storie capaci di salvarci dalla noia di una quotidianità ormai sempre più virata verso ciò che è oscuro e doloroso. Non siamo disposti ad accettare che Spielberg possa sbagliare, perché non vogliamo che abbia torto. Non vogliamo che si sia sbagliato. Per gli spettatori alla cerca della meraviglia, della magia e dell’intrattenimento è troppo importante che Spielberg abbia ragione. Lui ci fa credere di poter volare su una bici o di inseguire una stella con il solo pensiero dei ricordi felici: e noi vogliamo credergli così disperatamente da essere disposti a sospendere l’incredulità, dando a questo regista la sensazione di essere imbattibile. Meglio, di essere infallibile.
Perché gli errori di Spielberg sarebbero anche i nostri. I suoi fallimenti sarebbero l’eco dei nostri sbagli. Nel corso degli ultimi cinquant’anni Steven Spielberg ha trovato il modo di essere un nostro amico e un artista a cui vogliamo così bene che siamo disposti a perdonargli tutto, con un’affettuosa pacca di incoraggiamento. Allo stesso tempo, inoltre, i suoi film sono diventati dei classici, di pezzi del nostro immaginario e magari la bussola dei nostri sogni. Perciò a Spielberg è permesso sbagliare: il punto è che noi lo amiamo così tanto che spesso dimentichiamo la possibilità dell’errore, accettando solo il miracolo della meraviglia.
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