Siamo cresciuti forgiati dal loro esempio. Un esempio da seguire o rigettare. Una guida di cui fidarsi oppure da cui fuggire il più lontano possibile. Almeno per chi ha avuto la fortuna (o la sfortuna) di averne uno. I padri sono figure ambigue che nel bene o nel male, che lo vogliamo oppure no, ci definiscono. Adesso, però, le cose sono cambiate. Adesso siamo noi a manipolare loro. E lo facciamo con un joypad in mano. Sì, perché negli ultimi anni tantissimi videogiochi ci hanno messo nei panni di padri alle prese con il fardello della genitorialità. Spesso intesa come un livello difficile da superare. Una condizione esistenziale vissuta con sofferenza, patemi e riluttanza. Da dove nasce questa esigenza? E come mai la paternità è diventata una costante dell’esperienza videoludica? Proviamo a capire perché.
Gancio emotivo
Prima di tutto. Quel rapporto padre figlio è un gran bel trucco. Perché, perché è un gancio emotivo fortissimo a cui è difficile sfuggire. Videogiocare è un atto di empatia senza scampo. Perché ogni volta che giochiamo ci mettiamo nei panni di qualcun altro. Però per entrare davvero sotto la pelle dei personaggi che impersoniamo c’è bisogno di un legame intimo, di un punto di incontro reale, autentico, verosimile. E allora ecco che tanti titoli che scomodano un archetipo vecchio quanto l’umanità: il rapporto mentore allievo vissuto in famiglia. Padri e figli lungo un’avventura. Un grande classico “a presa rapida” che fa facilmente breccia nei nostri cuori. Perché non tutti diventano padri, ma tutti siamo figli. E quello no, non smettiamo di esserlo mai.
E allora ecco il gancio emotivo. Che siamo padri o figli, il videogioco affonda a piene mani nel nostro vissuto e ci conquista. Per chi ha avuto figli potrebbe essere quasi un tutorial sulla genitorialità. Per tutti gli altri un modo di rivedere il proprio vissuto dentro una storia videoludica vicina anche se ambientata nell’epica norrena, in un fantasy polacco o dentro un mondo devastato dall’apocalisse. Perché se i binari della storia sono un padre e un figlio allora sappiamo che su quel treno ci saliamo quasi tutti.
The God of Us
Facciamo qualche esempio pratico scavando tra i titoli tripla A più mainstream. Partiamo dal papà dei rapporti padre-figlia: The Last of Us. Quello tra Joel ed Ellie non è solo un viaggio tortuoso all’interno di un mondo post-apocalittico, ma un’avventura personale in cui due persone imparano di nuovo l’affetto. Da un parte un uomo traumatizzato, che padre lo è stato prima che gli ammazzassero la figlia davanti agli occhi. Dall’altra una ragazzina sperduta che si sente diversa come tutti gli adolescenti (a prescindere da quel morso che non l’ha trasformata in un clicker).
Ed ecco due persone che si contaminano a vicenda. Eccolo il vero virus: l’affetto. Nel primo gioco viviamo tutto il pudore di Joel che non vuole proprio rischiare di affezionarsi di nuovo, e così preferisce rimanere rinchiuso nella sua corazza di uomo burbero e diffidente. Ma per i sentimenti non ci sono interruttori e nonostante le sua premure ecco che alla fine arriverà a pensare: la vita di Ellie vale più di quella del mondo. Che è quello che un padre pensa di sua figlia. Pensiamoci: The Last of Us – Parte I ci fa vivere la storia dalla parte di Joel, mentre The Last of Us – Parte II, tutto vissuto nei panni di Ellie. Nel sequel però Joel c’è comunque come un fantasma, una presenza- assenza che racconta ancora un rapporto conflittuale di odio-amore tra padre e figlia che ferisce e commuove.
E facciamo un salto tra i ghiacci norreni con l’acclamato God of War, dove ritroviamo ancora una volta davanti a un complicato rapporto padre-figlio. Come per Joel anche per Kratos l’avventura parte da un lutto, con la perdita di sua moglie. Ed è ancora la morte che costringe un padre a stare vicino a suo figlio. Quella tra Kratos e Atreus è una relazione tutta da costruire. Da un parte un padre lontano, silenzioso, pragmatico. Dall’altra un figlio curioso, che vuole conoscere le storie davanti a un genitore che conosce solo le maniere forti e preferisce far parlare le mani. Anche qui come in The Last of Us il viaggio sarà fondamentale per costruire un rapporto degno di questo nome.
Father is coming
E continuiamo questa carrellata di padri e figli scomodando persino un personaggio sterile, che di regola figli non ne può avere. Stiamo parlando del nostro amato Geralt di Rivia che nello splendido The Witcher 3: Wild Hunt diventa il padre putativo di Ciri. Quella di Geralt è una paternità quasi per vocazione, una specie di obbligo morale in cui il suo istinto lo spinge a proteggere la ragazza. E mai come in The Witcher 3 capiamo il fardello dell’essere genitori, quella condizione che proprio come fa il gioco ci mette sempre davanti a un bivio: cosa è meglio fare? Cosa è giusto fare per mia figlia? Essere protettivi? Lasciarla libera di fare? E allora ecco che anche il più crudele dei cacciatori di mostri si ammorbidisce e dimostra empatia.
Negli ultimi dieci anni il tema padre-figlio/a è stato trasversale ai generi, toccando gialli investigativi come Heavy Rain, lo stealth di Dishonored, l’avventura grafica The Walking Dead e la fantascienza primitiva di Horizon Zero Dawn. Una costante che non ha risparmiato titoli smaccatamente action come Gears of War (che nel corso della saga ci farà conoscere il figlio del protagonista Marcus), oppure, anche se in modo più sottile, quel capolavoro di Red Dead Redempion 2. Nello splendido gioco western targato Rockstar il rapporto è vissuto da entrambe le parti. Come figli, nei panni di Arthur Morgan cerchiamo in Dutch una specie di figura paterna che ci guidi. Infatti ci fidiamo di lui, ci affidiamo a lui in qualche modo gli crediamo per poi esserne continuamente delusi.
Nella seconda parte invece diventiamo padri di famiglia con John Marston, e lo faremo alle prese con un figlio problematico che ci allontana, immersi in una quotidianità normalissima: facendo la spesa, aggiustando lo steccato e mungendo le vacche. Una specie di simulatore di vita vera nel Far West. Insomma negli ultimi anni sempre più videogiochi ci hanno messo nei panni di padri riluttanti e conflittuali, come a dimostrarci che essere genitori non è un gioco. E soprattutto non è un gioco facile. Ma da dove nasce questa esigenza?
Crescere insieme
La risposta è ovvia. Negli anni non è solo maturata la tecnologia, non è solo maturata l’industria videoludica, e non sono maturati solo gli autori di videogiochi, diventati padri lungo la strada. Come Neil Druckmann, che si è ispirato a sua figlia per dare vita al personaggio di Ellie (per questo così complesso, tridimensionale e verosimile). Però siamo maturati e cambiati soprattutto noi videogiocatori. Tutta la “generazione PlayStation” – generalizziamo anche se siete team Pc o Xbox – nata negli anni Ottanta/Novanta e cresciuta nel corso di quelli Duemila adesso ha l’età per essere padre. Per cui è normale che i videogiochi si rivolgano alla loro utenza parlando la sua stessa lingua e rievocando vissuti familiari. Fateci caso, ci sono dei franchise videoludici che sono proprio cambiati e in parte si sono snaturati anche a livello di gameplay seguendo questo bisogno. Due esempi lampanti.
Ancora con God of War: siamo passati dal primo gioco di 17 anni fa in cui si faceva soprattutto a mazzate con un titolo che era l’emblema della spensieratezza giovanile un po’ superficiale a un reboot più profondo e introspettivo. Oppure come dimenticare Resident Evil, che nasce come puro survival horror in terza persona con una trama degna di un b-movie. Ecco anche qui con il settimo e ottavo capitolo (di fatto dei reboot) hanno prima di tutto cambiato prospettiva, passando dalla terza alla prima persona, diventando leggermente più intimista. Ed è successo per metterci nei panni di chi? Di un marito e di un padre come Ethan, ovviamente. Tutto questo per prendere atto di cosa?
Di legame un bellissimo. Bello, duraturo e inscindibile. Quello tra noi e l’arte videoludica, che ci asseconda, ci parla e vive un rapporto saldo con il suo pubblico (spesso molto più di quanto faccia il cinema) Siamo cresciuti insieme, siamo cambiati insieme, siamo invecchiati insieme. E magari tra trent’anni l’avventura sarà vissuta nei panni di vecchi saggi o di nonni incazzati con i nipoti. Per poi passare, chissà, a un bel gestionale di pompe funebri.
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