“I trace it all back to then“: la voce di Emma Stone trema e si affievolisce, divorata dalla nostalgia mentre canta Audition in La La Land. In questa specifica scena del capolavoro di Damien Chazelle, Mia sta puntando i piedi per andare avanti nella sua carriera, ma il suo sguardo è rivolto al passato, a quell’allora a cui fa “risalire tutto“.
Noi tutti abbiamo avuto a che fare con la nostalgia: sui banchi di scuola abbiamo imparato insieme ad Ulisse che è il dolore del ritorno e grazie alle esperienze di vita abbiamo guardato in faccia i raggi dorati del nostro passato, che sembrano sempre più caldi di quelli che illuminano il presente.
La nostalgia, con il suo carico di tristezza e di malinconia, ha il potere di distorcere la realtà, di manipolare i ricordi, rendendoli più smussati e dolci e, perciò, migliori di quello che avviene quotidianamente. Un meccanismo che scatta anche quando ci troviamo in una sala buia a vedere un film. Proprio come avviene coi ricordi, così la nostalgia a volte diventa un ostacolo per una fruizione scevra di pregiudizi o prese di posizioni.
La paura del cambiamento
La nostalgia non è solo un sentimento a cui i poeti e gli artisti ricorrono per tracciare il percorso della loro arte, ma a volte è una vera e propria condizione di salute che può scivolare nel patologico. È un’insidia invisibile e silenziosa, che si presenta quando è troppo tardi per mettere gli argini.
Al cinema la nostalgia si trasforma invece in una barriera, in un muro alto e solido, che ostacola tanto lo sguardo quanto la ricezione di un’opera. Una sorta di bagaglio emotivo e culturale che annulla nello spettatore la libertà di vivere serenamente un cambiamento.
Da questo punto di vista ne è un caso emblematico la lunga e futile polemica che è rimbalzata sui social alla notizia che Halle Bailey sarà il nuovo volto di Ariel ne La Sirenetta di Rob Marshall.
Per settimane la rete è stata invasa di spettatori indignati: tra chi urlava – come sempre – alla “dittatura del politicamente corretto” e chi cercava una perfetta ricostruzione storica in un’opera incentrata su una figura che assurge alla leggenda e che di certo non ha velleità di storicizzazione.
Tra le motivazioni che hanno spinto così tante persone a una sorta di sollevamento popolare non c’è solo un razzismo ancora molto interiorizzato, ma anche la nostalgia che non ci permette di aprirci al nuovo, di accettare che il mondo prosegue la sua corsa mentre noi abbiamo la sensazione di rimanere fermi, incastrati nelle nostre stesse vite.
Non è un caso se molte delle persone che si sono lamentate di questa nuova Sirenetta siano i cosiddetti Millennials, o le generazioni precedenti. Questa posizione non ha a che vedere solo con i bias e gli approcci euristici con cui si cerca di dare una logica a qualcosa che appare snaturato o sbagliato.
Un’intera generazione si è seduta davanti allo schermo di un cinema e di una televisione e ha guardato per anni Ariel con il suo incarnato di perla e i capelli rossi. Nell’immaginario collettivo di quella generazione (e non solo), la Sirenetta ha quella fisionomia.
E dal momento che la maggior parte delle persone ha visto La Sirenetta durante l’infanzia, in un periodo statisticamente felice, l’associazione tra il film e il sentimento di benessere diventano una sola cosa. Accettare quindi il cambiamento e la possibilità, in questo caso, di una protagonista lontana da quell’immaginario significa inconsciamente annullare e cancellare anche quei giorni dorati di un passato sempre più difficile da raggiungere.
Ecco allora perché le bambine nere al trailer del film emanavano gioia da tutti i pori: non solo per l’identificazione personale, ma anche perché la loro giovane età impedisce loro di avere un bagaglio culturale sulle spalle a cui fare ritorno o con cui gettarsi in paragoni a volte del tutto inutili.
La nostalgia in questo senso rende più difficile guardare e apprezzare le nuove opere: perché per aprirci al nuovo dobbiamo prima di tutto accettare di lasciar andare il vecchio ed è un meccanismo, questo, che la nostalgia rende difficile, a tratti doloroso.
Un caso esemplare: Tim Burton
Un altro esempio è rappresentato dalla carriera di Tim Burton, regista che il 23 novembre approda su Netflix con la sua serie Mercoledì, dopo averla presentata al Lucca Comics and Games 2022.
Dopo i primi splendidi film che hanno lanciato non solo la sua carriera, ma il suo stile e la sua visione sul mondo, fatta di freaks e anime straordinarie nascoste nel contrasto con la normalità, Tim Burton sembra essere scivolato su una china che ha spinto gli spettatori a chiedersi se la carriera del regista fosse ormai irrecuperabile, specie dopo il sodalizio degli anni Duemila con la Disney.
Anche in questo caso la nostalgia gioca un ruolo fondamentale nella percezione delle opere: al di là della loro efficacia o della loro effettiva qualità, i film di Tim Burton vengono attesi con la febbrile speranza di tornare ai fasti di Edward Mani di Forbice o di Big Fish.
In questo senso il pubblico si aspetta che un regista annulli il proprio percorso di vita, le scelte che ha fatto e che hanno modificato il modo di rapportarsi al mondo e alla società: il pubblico anela quello che è stato e non accetta, di base, che esso non possa tornare.
Guardare il trailer di Mercoledì e aspettarsi un racconto datato 1990 significa ancora una volta chiudersi al cambiamento, non accettare il passaggio del tempo e, in qualche modo, permettere alla nostalgia di dettare il nostro gusto prima ancora di aver visto effettivamente l’opera in oggetto.
La nostalgia, dunque, diventa una sorta di pregiudizio aggiuntivo, una lieve forma di snobismo che ci fa storcere un po’ il naso davanti al nuovo: quel nuovo di cui diciamo di non aver bisogno, perché abbiamo il vecchio, che alberga nei nostri ricordi migliori.
La nostalgia ci ricorda chi siamo
Quindi la nostalgia è qualcosa da combattere? Qualcosa che serve solo a minare la nostra supposta obiettività quando ci sediamo in una sala buia in attesa di essere rapiti dalla meraviglia del cinema?
Sfatando il mito che qualsiasi critica possa essere interamente obiettiva, la nostalgia può essere anche un’arma molto potente da usare. Per lo spettatore può rappresentare una sorta di punto di partenza: ci ricorda chi siamo, da dove abbiamo preso il nostro gusto e le nostre passioni. A patto di non chiuderci al nuovo, di non avere paura di quello che è fuori dalla nostra visuale, la nostalgia può essere un vero e proprio trampolino di lancio.
E la nostalgia può diventare anche uno strumento di creazione per i registi stessi: lo hanno dimostrato Paul Thomas Anderson con il suo Licorice Pizza o, ancora più recentemente, Steven Spielberg e il suo commovente The Fabelmans, che dimostra proprio come una nostalgia sana e consapevole possa aiutare a migliorare l’arte, invece che a ostacolarla.
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