L’attesa è finita: è appena uscita la quinta stagione di The Crown, pluripremiata serie tv Netflix dedicata alle vicende biografiche della regina Elisabetta II e, per la prima volta nella storia del telefilm, le voci degli appassionati che attendono con interesse e curiosità l’arrivo dei nuovi episodi sono sovrastate dalle critiche di quanti accusano la produzione di Peter Morgan di sensazionalismo e mancanza di obiettività storica.
La celebre attrice Judi Dench, volto storico della saga di James Bond e amica personale della regina consorte Camilla Parker Bowles, nonché interprete delle regine Elisabetta I e Vittoria sul grande schermo, ha affermato che la narrazione proposta dalla serie Netflix sarebbe “crudelmente ingiusta nei confronti dei singoli individui, e dannosa per l’istituzione che rappresentano”.
Poco tempo prima, era stato l’ex premier britannico John Major a etichettare il telefilm come “una serie di sciocchezze”, con particolare riferimento all’episodio in cui, stando alle prime anticipazioni, il principe Carlo proporrà al primo ministro un piano per far abdicare sua madre Elisabetta.
La richiesta che Judi Dench ha rivolto a Netflix è quella di rivedere la direzione artistica di The Crown o, quantomeno, prendere in considerazione l’inserimento di un disclaimer, ovvero un chiarimento che ricordi agli spettatori che quanto visto sullo schermo è frutto di pura finzione narrativa.
La piattaforma streaming, da parte sua, ha respinto al mittente la proposta dell’attrice, e ha confermato che la serie continuerà a definirsi esplicitamente “ispirata ai fatti storici”, alimentando ulteriori controversie.
Eppure, solo qualche anno fa, sull’onda del successo della prima stagione, varie fonti vicine a Buckingham Palace avevano fatto trapelare come vari membri della famiglia reale seguissero con favore la serie tv, e forse tra costoro vi fosse anche la stessa Elisabetta.
Proviamo a ripercorrere come The Crown sia passata dall’idillio alla bufera nei suoi rapporti con l’opinione pubblica inglese, nel tentativo di capire un po’ meglio le ragioni della violenta polemica che sembra incombere sulle ultime due stagioni del telefilm di Peter Morgan.
Nubi nere all’orizzonte
La prima stagione di The Crown ha fatto il suo debutto a inizio novembre 2016, in quella che, anche a livello qualitativo, è stata l’età d’oro di Netflix: fin dai suoi primi giorni, la serie di Peter Morgan ha immediatamente riscosso il plauso unanime del pubblico e della critica, ma soprattutto è riuscita nell’impresa di conquistare un silenzioso e discreto beneplacito da parte della stessa casa reale inglese.
Già allora, tuttavia, era ampiamente prevedibile che le cose sarebbero state inevitabilmente destinate a mutare, dal momento che il progetto aveva fin dal subito messo in conto la realizzazione di sei stagioni dedicate alle varie decadi del lungo regno di Elisabetta, promettendo di addentrarsi anche nei momenti più oscuri e controversi del suo lungo regno.
Che una bufera fosse in arrivo, insomma, era già ampiamente pronosticabile fin dal primo giorno.
2016-2022: cos’è cambiato?
Dietro la fine dell’idillio tra l’opinione pubblica inglese e il fenomeno Netflix c’è, anzitutto, una semplice questione di prospettiva.
Com’è naturale, le prime due stagioni della serie hanno portato sul piccolo schermo un racconto di formazione, in cui si lasciava intravedere il volto umano della monarchia inglese.
La giovane Elisabetta interpretata da Claire Foy era un’eroina imperfetta, una protagonista tormentata con cui tutti gli spettatori potevano ben identificarsi. La poetica della serie sembrava rivolgere uno sguardo comprensivo – e talora persino indulgente – nei confronti delle sue scelte più impopolari, mettendo in luce come queste decisioni fossero anche il frutto della sofferta transizione da ragazza a regina, e da essere umano a monarca idealizzato.
Il vero antagonista del racconto era semmai proprio quella corona che dà il titolo alla serie, simbolo tangibile dell’insieme di freddi principi e ideali sovrumani che finisce sempre per opprimere e trasformare chiunque sieda sul trono dei Windsor, travolgendo anche tutti coloro che fanno parte della sua vita.
Le conseguenze di questo approccio, tuttavia, erano chiare fin da subito.
Con il procedere delle stagioni la serie si è gradualmente evoluta, fotografando un lento e graduale effetto domino: la corona logora, inaridisce e corrompe gli individui, e li porta a isolarsi sempre di più, trasformandoli da vittime a carnefici (pur senza mai abbandonare anche il primo dei due ruoli), ed Elisabetta, Filippo, Margaret, Carlo, Anna e i loro familiari non fanno certo eccezione.
I loro personaggi diventano sempre più opachi e problematici, tormentati da rimorsi, rancori e debolezze, e la scelta di mostrarne il volto umano finisce per non sortire quegli effetti lusinghieri che erano emersi dalle prime stagioni.
Una svolta epocale
A toccare un nervo scoperto, tuttavia, è anche e soprattutto l’approssimarsi del racconto televisivo ai ricordi personali degli spettatori: con il sopraggiungere dei fatidici anni Novanta, la serie si trova a fare i conti con polemiche e scandali che ancora oggi riecheggiano nella memoria collettiva, come la tragica morte di Lady Diana, il suo conflittuale rapporto con il principe Carlo e il ruolo giocato da Elisabetta nel corso dell’intera vicenda.
A prescindere da come li si racconta, sono gli stessi fatti storici a portare in dote un cumulo di tensioni e controversie irrisolte, per via del forte trauma che ancora li accompagna.
Non si tratta di una mera questione cronologica, ma anche e soprattutto del drastico mutamento culturale che in quell’epoca rivoluzionò l’esposizione mediatica della corona britannica.
Negli anni Cinquanta e Sessanta la sacralità della monarchia era ancora intatta, e la vita della regina era circondata da un alone di silenzio e riservatezza quasi ieratico. Conseguentemente, il narratore delle prime due stagioni aveva a sua disposizione un ampio spazio di manovra, e le innovazioni narrative non erano che un innocuo arricchimento rispetto alle molte lacune della storia ufficiale.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, invece, il sacro timore si è dissolto e lo sguardo indiscreto dei tabloid si è affacciato anche nei corridoi più segreti di Buckingham Palace.
Quelli che prima erano semplici mormorii, sono diventate parole stampate, immagini a colori e videoriprese che hanno fatto la storia. Di conseguenza, anche il margine a disposizione per il racconto di Peter Morgan si assottiglia fino quasi ad azzerarsi, costringendo la quinta stagione di The Crown ad addentrarsi in un vero e proprio campo minato.
La Regina è morta, lunga vita alla Regina
Come se la situazione non fosse già abbastanza delicata, a pochi mesi dall’uscita della quinta, controversa stagione della serie si è verificato un evento epocale: la morte di Elisabetta II.
La scomparsa della regina, volto storico del Regno Unito fin dal 1952, ha rappresentato un cambiamento traumatico, la cui eco si avverte tuttora: dall’impero alla Brexit, e da Winston Churchill al Covid-19, Elisabetta è stata una delle grandi costanti dell’immaginario british, e la sua morte ha costretto l’umanità intera a prendere atto della fine di un’era e dell’inizio di un’altra, caratterizzata da forti incertezze e fosche previsioni per il prossimo futuro.
Il rapporto tra l’opinione pubblica e la corona è nuovamente mutato, con una netta inversione di marcia: se negli anni Novanta e Duemila gli scandali di corte avevano fatto emergere le ombre più oscure della casa di Windsor, ora la diffusa nostalgia per l’epoca appena conclusa e l’affetto popolare per la regina appena scomparsa stanno ripristinando un velo di tabù sui retroscena meno edificanti della monarchia inglese.
Per via di una concomitanza temporale a dir poco sorprendente, a trovarsi sul versante opposto della barricata – nel posto sbagliato al momento sbagliato – è ancora una volta la nuova stagione di The Crown, che, è bene ricordarlo, aveva concluso le riprese già a dicembre 2021, molto prima della scomparsa della sovrana.
O forse, osserveranno i lettori più disincantati, forse la serie Netflix si trova proprio nel posto giusto al momento giusto, a condizione che riesca a trasformare il clamore delle polemiche in nuovi spettatori…
Quando la storia incontra la finzione
Rieccoci, quindi, ai recenti attacchi di Judi Dench e John Major, che hanno accusato The Crown di confondere storia e finzione, perdendo di vista l’obiettività storica e mistificando la realtà dei fatti.
Anche senza aver ancora avuto modo di vedere i nuovi episodi della serie Netflix, possiamo tranquillamente confermare che le loro affermazioni portano con sé almeno un fondo di verità.
Fin dall’inizio, la serie si è presa ampie licenze narrative sulle vicende che vengono trasposte sul piccolo schermo, in alcuni casi modificando di sana pianta le dinamiche tra i personaggi, e in altri strizzando l’occhio alle “versioni non ufficiali” degli eventi.
Al tempo stesso, sono gli stessi detrattori di The Crown a riconoscere al telefilm un elevato grado di verosimiglianza, al punto da accusare la serie di riuscire ad attenuare il confine tra fatti reali ed eventi romanzati in maniera così abile da far perdere agli spettatori la cognizione di quali siano gli uni, e quali gli altri.
A ben vedere, tuttavia, così facendo finiscono per confermare involontariamente la bontà artistica del prodotto, dal momento che l’obiettivo della serie è proprio quello di proporre un’elegante commistione di storia e finzione, come lo è quello di Victoria, Becoming Elizabeth, The Tudors, The Serpent Queen, The Spanish Princess e tante altre serie tv che appartengono a questo filone.
Sarà compito dello spettatore più attento e consapevole cercare di districare la matassa, approfondendo i fatti storici narrati sullo schermo andando al di là del semplice intrattenimento.
Serie televisiva o documentario?
Con buona pace della discutibile richiesta di inserire un disclaimer per chiarire ciò che già dovrebbe essere ovvio a tutti, è infatti opportuno ricordare che The Crown è un period drama, ossia un’opera di finzione ispirata a fatti storici, e non certo un documentario o un docu-drama, ai quali invece si potrebbe più che legittimamente muovere un’accusa di scarsa obiettività storiografica.
La polemica sembra riecheggiare quella che, in ambito letterario, nel 2003 investì Il Codice da Vinci di Dan Brown: in quel caso si chiedeva allo scrittore americano di chiarire che il contenuto del suo romanzo era frutto di fantasia e non rispecchiava una verità storica, malgrado la definizione stessa di “romanzo” fosse più che sufficiente a collocarlo di diritto nella sfera della creazione artistica, e non della saggistica.
Nei confronti di un’opera di finzione a sfondo storico, come un romanzo o una serie tv, l’unica accusa legittima può essere semmai quella opposta, ossia di scavare un solco troppo marcato tra storia e narrazione, finendo per discostarsi in maniera troppo grossolana e fantasiosa dalla materia di partenza.
In questo caso, effettuare una commistione tra verità e finzione diventa impossibile, e l’iniziativa dell’autore finisce per pregiudicare ogni forma di intrattenimento.
Rappresentare Winston Churchill come un buon amico del principe Filippo per via delle origini tedesche della sua famiglia, Carlo e Diana come una coppia di coniugi felici, o Elisabetta come un’entusiasta fautrice delle politiche conservatrici di Margaret Thatcher sono validi esempi di una scarsa aderenza alle fonti, che squalificherebbe immediatamente la qualità della serie.
Al contrario, la scelta di inserire nel telefilm degli spunti narrativi di finzione così verosimili da poter passare per veri agli occhi dello spettatore meno esperto non fa che distanziare la serie tv dal genere del documentario, e garantire spazio artistico all’autore, confermando la bontà della sua creazione.
Perché allora si chiede a Peter Morgan di chiarire che la trama di The Crown è frutto di finzione narrativa e non si è avanzata la stessa richiesta, ad esempio, nei confronti di Michael Hirst, per le sue serie The Tudors e Vikings? Come già nel caso di Dan Brown, è una semplice questione di opportunità…
Il dilemma del confronto impossibile
Ed eccoci così al nodo principale della controversia.
The Crown non pecca certo di “mancanza di obiettività storica” più di quanto non lo facciano tutte le altre serie tv a sfondo storico attualmente in circolazione. E, di certo, nessuno degli altri period drama si è mai posto il problema di esibire un disclaimer in cui chiarisce che si tratta di mera finzione narrativa.
The Crown, però, parla della monarchia inglese contemporanea, e mette a nudo fatti accaduti alquanto di recente, che hanno lasciato un forte segno nella coscienza del mondo britannico, e forse dell’umanità intera.
Si potrebbe obiettare la stessa cosa nei confronti della miniserie inglese This England, dedicata a Boris Johnson e alla sua gestione dell’emergenza pandemica, o di film come Zero Dark Thirty, Vice e La Grande Scommessa, che raccontano in chiave romanzata la cattura di Bin Laden, la vicepresidenza Cheney e la grande crisi finanziaria del 2007, o, in ambito nostrano, Loro di Paolo Sorrentino, che affronta la controversa figura di Silvio Berlusconi.
La monarchia inglese, tuttavia, è un’istituzione che sta molto al di sopra della politica e della cronaca, e per molti versi incarna l’anima stessa di una nazione e i suoi valori più alti, e per questo si rende per forza necessaria una sensibilità particolare, e un abito su misura.
Lesa maestà o libertà narrativa?
Malgrado le accuse, The Crown ha sempre dato prova di rifuggire il “crudo sensazionalismo” di cui invece la accusano i suoi detrattori, e finora ha giocato con grande maestria le sue carte. Anche per il prossimo futuro, la serie ha già confermato che non intende rappresentare il momento dell’incidente dell’auto di Lady Diana, né proseguire il proprio racconto oltre gli anni Duemila, per mantenere una corretta distanza prospettica dagli eventi narrati.
Per i detrattori del telefilm, tuttavia, neppure queste scelte sono abbastanza rispettose: “Per Netflix – ha osservato Judi Dench – è tempo di riconsiderare le sue scelte, per il bene di una famiglia e di una nazione da poco in lutto, in segno di rispetto verso una sovrana che ha servito il suo popolo così diligentemente per 70 anni, e per preservare la propria reputazione agli occhi dei loro abbonati britannici”.
Eppure, la serie di Peter Morgan ha scelto di focalizzarsi proprio su quest’astratto insieme di valori e principi quasi sacri – unico al mondo nel suo genere – e di proporre una riflessione ben più alta e profonda di quanto non possa esserlo una semplice biografia di Elisabetta II.
Non a caso, la serie non si chiama Elizabeth, o The Queen, bensì The Crown. E la corona, come abbiamo visto, è sempre stata il vero antagonista del racconto, fin dalla prima ora.
La serie si macchia di lesa maestà? Indubbiamente. E lo fa nel modo più radicale possibile, ma anche nella maniera più artisticamente elevata, scegliendo di mettere nel proprio mirino non la singola donna, bensì l’istituzione che costei ha rappresentato per oltre 70 anni.
The Crown non manca di riconoscere alla corona inglese la sua grandezza e la sua capacità di ispirare un’intera nazione, limitandosi a constatare come a questa maestosità corrispondano ombre altrettanto enormi e sinistre.
Non c’è nulla di male nel prendere atto di una scomoda quanto conclamata verità, sia pure avvalendosi dello strumento della libertà artistica.
Ad ogni modo, i più convinti sostenitori della monarchia inglese non hanno motivo di temere: la corona è e rimarrà molto più grande, imponente e maestosa della compianta Elisabetta, del suo erede Carlo, dei loro errori umani, e, sicuramente, anche delle umili critiche che le provengono una serie televisiva.
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