Quando arrivò nel 2018, Black Panther fu un successo perfino superiore a quanto la Marvel stessa potesse anche solo sognare. Merito del regista Ryan Coogler, dei fascinosi protagonisti (Chadwick Boseman e Michael B. Jordan su tutti), ma anche e soprattutto per la capacità di capire, rivolgersi e coinvolgere un pubblico – quello black, americano ma non solo – che storicamente e notoriamente non era mai stato il principale destinatario di storie di supereroi e blockbuster ad altissimo budget. Anche per questo il primo Black Panther è stato un fenomeno commerciale ma soprattutto sociale che qui in Italia abbiamo potuto percepire e capire solo parzialmente.
Poi nell’agosto del 2020 arrivò la terribile notizia della morte di Boseman, l’attore che tutti i media stavano ancora celebrando per le sue performance ed il suo esempio verso il pubblico più giovane. Una notizia inaspettata per tutti, si dice addirittura anche per la Marvel stessa e molti dei suoi colleghi, che scioccò il mondo e mandò in frantumi i sogni di chi vedeva in questo supereroe di colore il futuro del MCU e l’inizio di un nuovo modo di immaginare l’industria dell’intrattenimento.
Sono due premesse probabilmente note ai più, ma necessarie a questa recensione di Black Panther: Wakanda Forever in quanto lo stesso film non può prescindere da due elementi tra loro in contrasto: da una parte un successo straordinario ed un’attesa alle stelle per questo sequel; dall’altra la consapevolezza da parte di chiunque che la morte del suo protagonista indiscusso è un vuoto che non può essere colmato in alcun modo. E infatti, giustamente, il nuovo film nemmeno ci prova a farlo.
Black Panther: Wakanda Forever
Genere: Azione, fantastico
Durata: 161 minuti
Uscita: 09 novembre 2022 (Cinema)
Cast: Letitia Wright, Lupita Nyong’o, Danai Gurira, Tenoch Huerta e Angela Bassett
La trama: un paese in lutto e un popolo minacciato
Si parte infatti da un funerale, quello di re T’Challa: morto di una malattia non meglio specificata ed improvvisa. Non vediamo e non vedremo mai il suo Black Panther, ma solo la sua famiglia e il suo popolo che lo celebrano e cercano di venire a patti con questa inaspettata tragedia. Insomma realtà e finzione si mescolano in questo prologo che appare tanto malinconico quanto sincero. Un anno dopo è la Regina Madre Ramonda a tenere le fila del Wakanda e ad affrontare a muso duro gli altri membri più potenti dell’ONU che continuano a cercare una scusa per potersi impadronire del prezioso vibranio.
E se le madre continua a proteggere il paese con la diplomazia, la principessa Shuri si concentra sulle sue conoscenze e abilità tecnologiche per progettare nuove armi e nuovi sistemi di difesa, ben consapevole che il Wakanda ormai non è più al sicuro. Il pericolo però arriva dal posto più inaspettato di tutti: le profondità dell’oceano. E porta un nome che gli appassionati di fumetti conosco bene ma che fa qui il suo debutto sullo schermo: Namor è infatti il re di Talokan, un’antica civiltà che vive sott’acqua e che per secoli si è sempre tenuta nascosta dal resto del mondo. Solo ora ha deciso di farsi vivo con i wakandiani vedendo in loro un possibile alleato contro coloro che vivono in superficie e pensano solo a depredare le risorse altrui. Ma con tanti interessi in gioco, il confine tra amici e nemici si fa sempre più labile, e il Wakanda non ha più Black Panther a difenderlo da eventuali attacchi esterni.
Il potere di un cast tutto al femminile…
Non che il Wakanda sia indifeso, tutt’altro. Sappiamo bene che le Dora Milaje, le forze speciali guidate da Okoye (Danai Gurira), sanno essere letali. E d’altronde la stessa Shuri (Letitia Wright) ha più volte dimostrato di essere perfettamente in grado di difendersi, così come la spia Nakia (Lupita Nyong’o) già nel primo film. E di certo la regina interpretata da una fantastica Angela Bassett tutto può sembrare tranne che debole. Eppure è significativo come in questo film una nazione in pericolo sia guidata e protetta sempre e solo da donne; in particolare donne “abbandonate”, chiaramente per ragioni di forza maggiore, dagli uomini che gli erano stati affianco, guidandole e proteggendole, per così tanto tempo.
Tra i tanti film che ormai provano ad inserire, in modo più o meno organico, sprazzi di girl power, bisogna ammettere che Black Panther: Wakanda Forever è certamente quello che lo fa meglio e in modo non forzato, ma anzi come conseguenza naturale tanto degli sviluppi delle trame precedenti che dagli eventi nefasti della vita reale. Il Wakanda di questo secondo capitolo è a tutti gli effetti un paese al femminile, guidato da donne forti che sentono il peso della responsabilità, così come la mancanza di coloro che amavano, ma non si tirano mai indietro. Né cercano mai aiuto al di fuori di loro stesse, piuttosto sono loro a provare ad aiutare gli altri anche nei momenti di maggiore difficoltà e indecisione.
Proprio per questo motivo l’inserimento di un ulteriore personaggio femminile – peraltro dalle motivazioni e caratteristiche molto simili a Shuri – come la Riri William della new entry Dominique Thorne, non solo non aggiunge nulla in un film del genere, ma rischia anzi di creare quasi un effetto boomerang e di rovinare quanto di buono e naturale era stato fatto con le premesse iniziali. Avete presente quando si dice il troppo stroppia? Ecco, questo Wakanda Forever potrebbe diventare quasi un manifesto di questo motto, e di certo non solo a causa dell’inserimento della giovane inventrice.
… per un film che scommette tutto sul nuovo antagonista e il nuovo mondo che ci presenta
Un’altra delle caratteristiche principali del primo Black Panther, come dicevamo, è proprio quella di aver dato voce e spazio ad una “minoranza” come quella afroamericana. In questo sequel Ryan Coogler e la Marvel provano a fare qualcosa di ancora più ambizioso, ovvero aggiungere al proprio tema portante anche la storia dello sterminio dei popoli mesoamericani dai parte dei conquistadores spagnoli. Lo fa in modo piuttosto veloce e superficiale, ovviamente, ma comunque consapevole, con il preciso scopo di aggiungere una nuova e ulteriore componente simbolica al proprio franchise più politico e politicizzato. Ma, sebbene sia apprezzabile il tentativo, a volte il troppo stroppia e anche in questo caso di naturale non c’è davvero più nulla. Ed è così che la sceneggiatura risulta tanto forzata quanto invece sembra sincera quella legata alla memoria di Boseman.
Di contro però c’è da dire che il Namor interpretato da Tenoch Huerta è certamente affascinante, ed è indiscutibilmente la novità migliore del film. Nonostante look ed abilità (le ali ai piedi che gli permettono di volare) forse più adatte ai fumetti che al grande schermo, bisogna ammettere che superato un primo impatto iniziale un po’ straniante, il suo personaggio, con la sua forza e il suo carisma, sono di quelli che rimangono certamente impressi, tanto da garantirsi un posto assicurato nel futuro del Marvel Cinematic Universe.
Molto meno funziona, a nostro parere, il mondo che si porta dietro e in cui è ambientata tutta la parte centrale del film, quella sicuramente più faticosa e in cui maggiormente si sentono il peso delle due ore e quaranta totali: c’è tutta una parte in cui visitiamo il regno subacqueo di Talokan e in cui anche noi, come i protagonisti, dovremmo rimanere stupiti da quel che vediamo. L’effetto generato negli spettatore però non è esattamente quello voluto, tanto che ad un certo punto – tra balene e correnti d’aria da utilizzare per viaggiare – la sensazione è di essere quasi finiti in una sorta di remake live action di Alla ricerca di Nemo. Ma soprattutto, a causa anche ad alcune scelte di fotografia discutibili, la sensazione è anche quella di essere davanti ad una versione decisamente inferiore di quello che troveremo nelle prossime settimane nel nuovo Avatar di James Cameron.
Anche i combattimenti e le scene d’azione risultano molto più confuse rispetto al capitolo precedente, e soprattutto molto meno epiche e memorabili. Questo proprio perché molto spesso sono ambientate sott’acqua, oppure, come nel caso della sequenza a Boston, sembrano derivate dal primo Black Panther… ma senza il supereroe che dà il titolo al film.
Quanto ci manca Chadwick Boseman
E qui torniamo quindi all’altro grande problema del film, un difetto enorme di cui nessuno è colpevole ma che inficia terribilmente su questo secondo capitolo. Abbiamo già detto di quanto sia bello avere un film con una presenza femminile così ampia e centrale, ed è evidente in ogni scena quanto le interpreti principali siano tutte talentuose e soprattutto versatili (Lupita Nyong’o parla cinque lingue nel corso del film). Eppure bastano poche scene flashback in cui si rivede T’Challa per farci capire e ricordarci quanto, ad un film di questo tipo, manchi un protagonista dalla presenza scenica di Chadwick Boseman. O anche di Michael B. Jordan, l’unico che, col senno di poi, avrebbe forse potuto ereditare il suo ruolo.
Mancano quegli interpreti che non solo erano riusciti a caratterizzare alla perfezione i loro personaggi ma che avevano anche dato al film uno stile ed una personalità unica, tanto da renderlo amato e celebre al di sopra del suo reale valore artistico, ma mai in modo immeritato. Proprio perché in Black Panther c’era un equilibrio perfetto tra modernità e tradizione, tra le motivazioni del protagonista e del suo nemico, tra stile e contenuto. Un equilibrio che in questo Wakanda Forever non c’è mai. Ci sono invece singoli momenti buoni che soprattutto i fan non potranno che apprezzare: ma non è certo un caso che riguardino tutti il ricordo del primo vero Black Panther e quel vuoto impossibile da colmare.
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La recensione in breve
Black Panther: Wakanda Forever è un film che parla di elaborazione del lutto ma al tempo stesso deve fare i conti con la perdita del suo attore protagonista: per questo motivo è certamente il film del Marvel Cinematic Universe più triste e malinconico, per certi versi anche il più rabbioso. Tutto questo si traduce su schermo in un film certamente meno epico ed imponente di quanto fosse il precedente ma probabilmente anche in una chiusura della Fase 4 più anticlimatica e meno ambiziosa di quanto fosse lecito aspettarsi. È una grande celebrazione che probabilmente piacerà comunque ai fan, ma di fatto guarda molto più al passato che al futuro.
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Voto Screenworld