Negli ultimi anni di multiversi ne abbiamo visti decisamente tanti. Talmente tanti che, ormai, anche al di là delle storie che vengono narrate tra cinema, serialità e letteratura, perfino il nostro mondo digitale si è aperto al multiverso (anche se non abbiamo precisamente capito quale sia la sua utilità). Certo, ne abbiamo visti tanti, ma non così tanti convincenti. Questo perché ancora non abbiamo visto quello creato dai The Daniels.
Scrivere la recensione di Everything Everywhere All At Once può voler dire solo una cosa: il giorno è giunto. Quello che è senza ombra di dubbio uno dei masterpiece dell’anno, arriva finalmente anche nei cinema italiani. Sempre con quei sei mesi di stacco, ma meglio questo di niente. E i The Daniels sono pronti a prenderci per mano e assieme alla loro Evelyn (una meravigliosa Michelle Yeoh) e a farci attraverso un’infinità di mondi variegati, da quelli più ordinari a quelli decisamente più straordinari, tra rocce parlanti, mani a salsiccia e occhi stick volanti.
Sappiamo che a una prima impressione questa pellicola può rappresentare un caleidoscopio di immagini, suggestioni e suoni, ma la realtà è ben diversa. Il significato massimo del film è molto più profondo e intimo di quello che si potrebbe immaginare. Sì, perché in questa pellicola, che in fondo potremmo tradurre in italiano come “tuttecose”, quello che effettivamente fanno i The Daniels è parlare proprio della pesantezza dell’esistenza, delle difficoltà quotidiane, delle costanti incomprensioni, del rimuginare sul passato e domandarsi, carichi di angosce e dubbi, sul futuro.
Everything Everywhere All At Once è la chiara rappresentazione, in poco meno di due ore e mezza, dell’overthinking umano che porta, spesso e volentieri, a vivere talmente tanto nella frenesia del dubbio esistenzialista, delle domande sul significato ultimo della vita e di tutti quei “se” che affollano la testa tenendola costantemente in moto, da non riuscire a fermarci e pensare anche solo per un momento che, forse, di risposte giuste o sbagliate non ce ne sono, ma che l’unico senso alla vita plausibile è il presente.
Vivere il presente con i suoi alti e i suoi bassi. Se sprechiamo la nostra esistenza a rimuginare sul passato o ad ossessionarci sul futuro, dimenticandoci effettivamente di vivere, che senso ha? Nessuno. Niente ha senso se confrontato con i grandi misteri dell’universo infinitamente più grandi di noi; ma la base di questo coraggioso lavoro caotico e al tempo stesso rigoroso, sta proprio nel ricordare che il senso di tutto si nasconde spesso nelle piccole cose. Nel sapere osservare, ascoltare, comunicare. E che non per forza nei film il bene deve trionfare sul male, l’uno deve distruggere l’altro come avviene spesso nei cinecomic, ma che perfino una riconciliazione può essere tanto epica quanto intensa.
Everything Everywhere All At Once
Genere: Commedia/Azione
Durata: 139 minuti
Uscita: 6 Ottobre 2022 (Cinema)
Cast: Michelle Yeoh, Stephanie Hsu, Ke Huy Quan, James Hong, Jamie Lee Curtis.
Trama: un giorno di ordinaria follia
La particolarità della trama di Everything Everywhere All At Once sta proprio nella sua protagonista: una donna ordinaria, noiosa, assente. In parole povere Evelyn, interpretata da un’iconica Michelle Yeoh, che più brava e in parte di così probabilmente non si può.
Ma chi è Evelyn? È una donna cinese trapiantata in America divisa tra casa e lavoro. Assieme al marito Waymond (Ke Huy Quan) gestisce una lavanderia a gettoni situata sotto il loro piccolo appartamento. Evelyn e Waymond hanno anche una figlia, Joy (Stephanie Hsu), che come tutti gli adolescenti sembra essere un vero mistero, soprattutto per la madre. Inoltre, Evelyn e Joy non fanno altro che scontrarsi sulla relazione lesbica della figlia la quale, in occasione della festa di capodanno che si terrà per i clienti più affezionati della lavanderia, vorrebbe portare la sua fidanzata e aver modo di farla conoscere al nonno.
Ma Evelyn, che con suo padre non ha mai avuto un rapporto sano, sentendosi sempre inferiore e soprattutto rappresentando, secondo lei, una vera e propria delusione, non vuole assolutamente, spaventata anche dalla possibile reazione dell’uomo.
A tutto questo aggiungiamo anche le incombenze che il gestire un’attività come quella comporta, in modo particolare il nemico temuto un po’ da tutti: le tasse. Evelyn non fa altro che litigare con fatture, su fatture, su fatture. E mentre la vita lì fuori va avanti, Evelyn non si rende conto che attorno a lei le cose stanno cambiando e le persone a lei care si stanno sentendo talmente tanto trasparenti da scomparire. Ma la nostra non-eroina è così tanto presa dagli scoperti e dalle minacce sempre più feroci dell’ispettrice puntigliosa Deirdre (Jamie Lee Curtis) che non si accorge assolutamente di nulla, se non quando l’universo le lancerà una “chiamata all’avventura” talmente tanto grande, folle e sconvolgente, da non potersi tirare indietro dal presente, né in quello che lei credeva fosse l’unico universo, né in tutti quelli dove c’è un’altra versione di lei, migliore o peggiore che sia.
Un quadro familiare in continua evoluzione e sdoppiamento ma che, in sostanza, non fa altro che presentare l’ordinarietà della vita di qualsiasi essere umano, introducendoci in quella prima parte di film nel fulcro essenziale di tutta la pellicola.
Un film diviso in tre atti
Continuando la recensione di Everything Everywhere All At Once, dobbiamo parlare della divisione del film. Esattamente come recita il titolo, The Daniels dividono la loro pellicola in tre atti. La prima parte introduttiva dove, in sostanza, ci vengono presentati personaggi e tematiche. Siamo un po’ sballottolati nella prospettiva di molteplici universi, di differenti Evelyn e la non accettazione di quella Evelyn che abbiamo conosciuto a inizio film di quello che sta succedendo. E, su tutto, incombe la minaccia di un temibile nemico presente in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, che vorrebbe annullare tutto quanto nel buco nero a forma di bagel generato dal suo stesso senso di solitudine.
Ed ecco che così ci apprestiamo ad addentrarci nell’everywhere. La parte più complessa, articolata, caotica e anche esasperante di tutta la pellicola.
Uno dei grandi meriti dei The Daniels risiede nella loro capacità di aver creato il primo multiverso, almeno visto al cinema, privo di buchi. Ad eccezione di quello del bagel, sia chiaro. La struttura del film è solida, precisa e perfino rigorosa. Certo, questo non vuol dire che qualche regolina non la possiamo anche infrangere. Sicuramente la struttura portante, affinché il castello non cada completamente, rimane inattaccabile.
Per quanto tutto quello che si vede sullo schermo, dalla tragedia alla commedia, dalla demenzialità alla filosofia, apparentemente sembri un agglomerato di immagini, suggestioni e ripetizioni di situazioni senza capo né coda, in realtà tutto torna. Il cerchio si chiude e nella messa in scena di questo caos generato dall’esistenza contemporanea, tutto torna a un suo ordine naturale delle cose, però con una consapevolezza in più. Una maggiore maturità dei personaggi e, soprattutto, una più grande percezione di se stessi, degli altri e di se stessi nel presente. Presente. Unico tempo che conta davvero. Ma prima di arrivare a questo, ovvero nell’epico ed emozionante terzo atto svolto in quella che possiamo letteralmente definire una vera e propria battaglia emotiva che lascia con il fiato sospeso fino ai titoli di coda, c’è da approfondire ancora questo secondo atto.
Sì, sceneggiatura solida. Sì, regia sincopata e martellante ma mai rozza, mai confusionaria, ma sempre lucida e presente in quello che sta facendo. Originale. Brillante. Un po’ in bilico tra quello che potrebbe essere un Matrix delle sorelle Wachowski o un Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Michel Gondry, ma sempre con una forte identità appartenente a questo stravagante duo di autori. Del resto, se avete visto il precedente lavoro dei due Daniels, Swiss Army Man, dovreste già sapere cosa aspettarvi lato regia. In caso contrario, cosa state aspettando a recuperare?
Tornando a noi e al nostro “Tuttecose”, proprio per creare quel senso di smarrimento della protagonista che imperterrita vorrebbe non dover rispondere a quel richiamo all’avventura ma che poi, inevitabilmente, cede, i due registi insistono in maniera esasperante con il loop di alcune azioni. Insistono, insistono, creando un forte senso di alienazione ed esasperazione sullo spettatore che, sul finale del secondo atto, potrebbe effettivamente accusare il colpo, arrivando prosciugato. Vanno a inficiare un po’ sul ritmo, appesantendo quel tanto che basta la pellicola da perdere di focus. Per fortuna questa sensazione dura non abbastanza a lungo da andare a discapito dell’attenzione nei confronti del terzo atto del film, la vera perla della pellicola.
Michelle Yeoh: una, nessuna, centomila Evelyn
La forza di questo film sicuramente si trova nella sua meravigliosa messa in scena, nella sua contaminazione di genere, nel suo essere un esperimento che parla di esistenza, filosofia e vivere, nonché nella sua carismatica ed eccellente colonna sonora; ma sicuramente anche nel suo perfetto cast, capeggiato da un’incredibile Michelle Yeoh. In un universo parallelo questo film avrebbe come protagonista Jackie Chan. Chissà, forse sarebbe stato altrettanto bello o forse no. Non lo sapremo mai. Ciò che sappiamo è che la Yeoh ci regala una performance degna di Oscar, una delle migliori interpretazioni di questo 2022.
Sempre se stessa, eppure sempre diversa. Ogni suo personaggio, al di là del minutaggio, sembra perfettamente caratterizzato. Prismatico. Cangiante. Tutte con la consapevolezza di essere centomila. Tutte con la certezza di essere una. Ed è proprio a questa consapevolezza che deve arrivare questo personaggio che, per colpa di alcune scelte che chiunque avrebbe potuto commettere, si sente nessuna. Inconsistente. Fantasma. Ma è proprio questo viaggio folle tra gli universi a far aprire gli occhi a Evelyn, ed è grazie alla Yeoh se la vediamo trasmutare davanti ai nostri di occhi.
Questa forza, però, è alimentata anche dall’interazione tra i personaggi e interpreti, in primis quello di Stephanie Hsu, un fiore di bravura travolgente. Un’attrice che davanti a sé potrebbe avere davvero una grande carriera. Proprio come Evelyn, sebbene in modo diverso, il personaggio di Joy non è semplice ed è molto variegato. La sua sofferenza vi farà male al cuore, possiamo garantirlo.
Effetto nostalgia nei confronti di Ke Huy Quan! Dopo averlo conosciuto come uno dei bambini iconici degli anni ottanta e dopo gli ultimi anni passati dietro la macchina da presa, ritorna in un grande molteplice ruolo che sa fin da subito conquistare.
Fiore all’occhiello tra ironia e terrore puro (altro che la sua nemesi Michael Myers) è Jamie Lee Curtis in uno straordinario, e completamente fuori dall’ordinario, personaggio.
Nel multiverso dell’esistenza umana
La creazione dei multiversi dei The Daniels è eccezionale. Come dicevamo all’inizio di questa recensione di Everything Everywhere All At Once, gli autori sanno perfettamente spaziare tra mondi più ordinari e mondi più originali, alcuni dei quali più geniali che paradossali.
Ovviamente non mancano volute citazioni ai film e ai registi d’ispirazione del duo, ma il citazionismo qui è sempre usato più per divertimento che per fini narrativi. Se strutturalmente la pellicola dei The Daniels ci sembra un blockbuster, proprio uno di quei cinecomics degli stessi fratelli Russo che hanno prodotto il film, l’essenza di questo film è molto più filosofica. Molto più intensa e profonda.
La pellicola parla del cercare e provare ad esistere, vivere, sopravvivere al caos della vita moderna. Caos a cui è difficile, molto difficile tenere testa per chiunque. Stare al mondo richiede uno sforzo immenso. Siamo costantemente bombardati da input differenti, pensieri, problemi. Domande. Incertezze. Dubbi. Cosa sarebbe successo se…? Come sarebbe andata se non avessi fatto…? La me di un altro universo ha le mie stesse preoccupazioni o se la cava meglio?
È un continuo pensare, rimuginare, ossessionarsi, soffocarsi. Il nostro cervello è in continuo moto, non smette mai di arrovellarsi su se stesso a tal punto da poter vedere quasi il fumo uscire dalle orecchie. Ecco, in questo senso Evelyn rappresenta un po’ tutti noi. Il film dei The Daniels è la perfetta rappresentazione dell’overthinking di questo mondo troppo caotico, troppo feroce, troppo veloce.
Quel famoso “everything” che apre per primo che cos’è se non quell’insieme di sentimenti difficili da gestire, da incasellare, problemi riguardanti il lavoro, la famiglia, preoccupazioni su bollette, affitti e tasse che, arrivando tutto insieme, creano un sovraccarico di cose a tal punto da portarci a pensare: che senso ha vivere così? La vita ha senso? Io ho senso?
Inizialmente sembra che i The Daniels cerchino le loro risposte nei multiversi attraverso il personaggio di Evelyn, ma non solo; in realtà, il “sé” di un altro personaggio diventa uno dei fulcri principali del film. Quel continuo cercare risposte da un universo all’altro, alla ricerca di un senso in un altro sé, di una vita migliore, non fa altro che far precipitare il tutto in una vera e propria follia nichilista dove il peso di ognuna di quelle esistenza va a creare uno stato di solitudine, incomprensione e alienazione tali da generare un vero e proprio buco nero di… disperazione.
E quindi no, la risposta di tutto non risiede all’interno di universi alternativi. Spesso le risposte sono più facili di quanto ci si possa immaginare, ma è l’arrivarci ad essere complesso. Ed è proprio il percorso che stanno raccontando i The Daniels come una sorta di paradossale terapia dove la sola e “semplice” risposta, ancora una volta, risiede nel presente. Nell’immediato. In ciò che ci circonda in questo momento. Questo perché il presente è l’unica cosa che ha davvero senso. L’unico momento temporale su cui possiamo effettivamente esercitare un’azione anche in prospettiva del futuro e per non pensare più al passato. Il presente per aprire gli occhi su chi siamo, su non perdere chi abbiamo.
Non è qualcosa di semplice, ma del resto cosa nella vita lo è? Ed è complesso, folle e totalizzante, proprio come la pellicola dei The Daniels che, se non l’aveste capito, dovreste proprio vedere non con due, ma anche con il terzo occhio!
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La recensione in breve
Everything Everywhere All At Once nella sua struttura da pellicola mainstream è, in realtà, una lunga riflessione sullo stare al mondo, sull'overthinking, sull'incapacità di vivere il presente perché troppo presi dal rimuginare sul passato e dalle domande sul futuro. Una pellicola che racconta di essere umani, di relazioni, di rapporti, ma anche di sofferenza, alienazione e solitudine. Racconta del nostro mondo e lo fa osando, creando le proprie regole, giocando con le immagini e con la fantasia. Un film che fa esplodere la testa ma che ha anche una grande capacità di emozionare e commuovere.
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Voto Screenworld