Giunta alla sua diciottesima edizione, la Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani) quest’anno cade l’8 ottobre e torna ad aprire musei, gallerie, fondazioni, associazioni, spazi d’artista per celebrare l’arte contemporanea. Volendo farlo con un linguaggio diverso e più vicino a quello di noi cinefili, potremmo soffermarci su moltissimi film e serie tv che inseriscono opere più o meno famose nelle loro scenografie e storie.
Uno degli esempi più raffinati è sicuramente Mad Men, serie Amc interamente disponibile su Sky Go e NowTV, che nel suo sovrapporsi di citazioni e tributi alla musica, alla letteratura e alla moda, utilizza spesso e sapientemente opere d’arte contemporanea. Non a caso è ambientata negli stessi anni della Scuola di New York, un gruppo di artisti che resero la Grande Mela capitale mondiale dell’arte spodestando per la prima volta Parigi e la vecchia Europa. Per omaggiarla a modo nostro, quindi, rispolveriamo insieme le opere d’arte contemporanea comparse in Mad Men, osservando quanto possano essere facilmente raccontate da una serie tv come questa e quanto a loro volta possano raccontare di quei pazzi uomini di Madison Avenue.
Il contesto storico: la Scuola di New York
La Scuola di New York rappresenta un gruppo informale di artisti, critici e intellettuali d’avanguardia che tra gli anni ’40 e ’50 spostarono i riflettori sul panorama artistico del Nuovo Mondo, in quel periodo sempre più vivo e ricco di sperimentazioni interessanti. Quelli non erano anni semplici per l’arte, prima c’erano stati Picasso, Kandinskij e Duchamp che iniziarono a scomporre e ricomporre le immagini rivoluzionando per sempre il figurativismo, poi arrivarono Frank Stella, Willem de Kooning, Mark Rothko e Jackson Pollock a portare alle estreme conseguenze un Espressionismo sempre più astratto. Sono questi ultimi artisti i principali esponenti del periodo, uniti non da un programma specifico ma dalle esperienze comuni: l’aver vissuto la crisi economica americana dei primi anni ’30, l’esigenza di superare il provincialismo dell’arte realista americana, la frequentazione degli stessi locali (The Club, Cedar Tavern) e ambienti culturali, la sensibilità a nuovi stimoli come il Cubismo, il Surrealismo, la psicologia jungiana.
Tutte queste esperienze li portarono a intraprendere insieme ad altri artisti percorsi simili tra loro. Artisti innovativi che probabilmente non avrebbero mai immaginato, decenni dopo, di vedere le proprie opere nello sfondo in una serie tv. Anche se, ad essere sinceri, quelle che vediamo in Mad Men non sono quasi mai originali, ma riproduzioni di opere specifiche o ispirate ad artisti dell’epoca commissionate appositamente dagli scenografi per arricchire il messaggio della serie.
Non cercare di capirlo, sentilo
Nel settimo episodio della seconda stagione di Mad Men, Bert Cooper (Robert Morse), dirigente dell’agenzia pubblicitaria Sterling Cooper, acquista una tela di Marc Rothko per 10.000 dollari. Una cifra decisamente spropositata negli Stati Uniti degli anni ’50; per questo la tela diventa oggetto di discussione ed escamotage degli sceneggiatori per rivelare alcuni aspetti caratteriali dei personaggi coinvolti. Jane (Peyton List) per esempio, la segretaria di Don Draper (Jon Hamm), vede solo «dei quadrati sbaffati» ed è stupita di come essi possano essere considerati arte, esternando così il suo carattere superficiale.
Harry Crane (Rich Sommer) è un pragmatico account manager, non può che essere critico nei confronti del pezzo e incredulo che qualcuno abbia pagato così tanto per esso, pensando addirittura che si tratti di uno scherzo. Diversamente l’art director Sal (Bryan Batt) capisce perfettamente che non si tratta di un gioco ma cerca invano di cogliere il messaggio dell’opera perché «deve significare qualcosa». Evidentemente era stato abituato a fare così dalla scuola d’arte, eppure non riesce a farlo proprio perché bloccato dagli schemi impartitigli dall’accademia e dalla società. Lo vediamo chiaramente anche nella sua vita privata.
Infine arriva Ken Cosgrove (Aaron Staton), lo scrittore del gruppo che con poetica e sentimento tocca le note giuste: «Per me non c’è niente da capire, forse lo devi solo sentire. È come guardare dentro qualcosa di molto profondo, sembra di caderci». Come la questione di Tenet, in pratica. Così l’arte contemporanea viene ridotta a una citazione di Christopher Nolan, perché è esattamente questa la sensazione che si prova difronte all’opera di Rothko. Non c’è nulla da capire, non è necessaria alcuna brochure che ce lo spieghi. Bisogna solo lasciarsi cadere.
Bert Cooper lo sa bene, ma rimane pur sempre un uomo d’affari che non si lascia abbattere dalle critiche. L’acquisto era e rimane un investimento, perché «tra me, te e il palo della luce qua fuori, l’unica cosa che può raddoppiare il suo valore entro Natale è proprio il palo».
Touché Mr. Cooper, perché oggi il record d’asta per un Mark Rothko è di 84.2 milioni di dollari.
Il sogno della moglie del pescatore
Tra le sue eccentricità, Bert Cooper odia intensamente le gomme e il fumo: una stranezza per l’epoca, specialmente se si considera che la Lucky Strike è per loro un cliente fondamentale. Affascinato dalla cultura giapponese, cammina sempre scalzo tra gli uffici e richiede a tutti di togliersi le scarpe prima di entrare nel suo, riccamente decorato con arte orientale. Infatti, oltre al Rothko possiamo qui ammirare un’altra opera d’arte famosissima, anche se di molto precedente al dipinto espressionista e che quindi esula dalla Scuola di New York. Si tratta del Sogno della moglie del pescatore, xilografia erotica del genere ukiyo-e realizzata intorno al 1820 dall’artista giapponese Katsushika Hokusai (quello de La grande onda di Kanagawa).
Questa forma d’arte era diventata popolare in Giappone durante l’urbanizzazione del periodo Edo, quando la classe mercantile raggiunse la ricchezza e le stampe su legno rappresentavano sfarzo ed edonismo perché presenti solo nelle case di coloro che potevano permettersele. Cooper se ne è potute permettere ben tre e possiamo vederle più volte nel suo ufficio alle spalle dei personaggi. Nel primo episodio della terza stagione la regia si sofferma in particolare su quella di Hokusai grazie allo sguardo di Lane Pryce (Jared Harris), che rimane a guardare incuriosito questo primo esempio di erotismo tentacolare: una donna avvinghiata sessualmente a una coppia di polpi, il più piccolo dei quali avvolge uno dei suoi tentacoli attorno al capezzolo della donna e la bacia, mentre il più grande esegue un cunnilingus. Dall’indole riservata e tipicamente inglese, Lane guarda affascinato l’opera d’arte e si lascia sedurre dall’ambiente libertino di Manhattan arrivando poi a perdere i suoi tradizionali punti di riferimento.
«L’ho comprato per la sua sensualità» specifica Bert «Devo dire che in qualche modo mi ricorda il nostro lavoro. Quale uomo sarebbe capace di immaginare una tale estasi?»
L’Op Art di Roger Sterling
Il socio di Bert nell’agenzia pubblicitaria che porta i loro nomi è Roger Sterling (John Slattery). Dopo il primo matrimonio si è risposato con Jane, una ragazza molto più giovane di lui che ha portato un po’ di freschezza nella sua vita privata così come nel suo ufficio che, ispirato all’estetica moderna degli anni ’60, nella terza stagione diventa molto diverso da quello di Bert. Arredato con diversi pezzi del famoso designer Eero Saarinen (come il tavolo e gli sgabelli) che conferiscono all’ambiente un aspetto più moderno e dinamico, l’ufficio di Roger ci mostra tre dipinti in bianco e nero firmati da Lisa Gizara (The King of Hearts, The Queen of Hearts e Madonna) che si adattano perfettamente alla palette di colori e allo spazio con le loro linee sinuose e curvilinee.
E si sa, Roger ha sempre avuto un debole per le curve.
Il fulcro di tutto sono però i dipinti nello stile Op Art di Bridget Riley, realizzati dal dipartimento artistico sotto la supervisione dello scenografo Dan Bishop per portare sul set l’optical art di cui i personaggi hanno sentito spesso parlare alla radio o in televisione. Questo movimento artistico divenne molto popolare nell’America di quegli anni grazie ad artisti come Victor Vasarely e Richard Anuszkiewicz, che giocando con le figure geometriche creavano effetti ottici, senso di movimento e sfarfallio delle immagini. Questi sono dipinti che creano illusioni come quella di essere risucchiati, secondo Freddy Rumsen (Joel Murray), ma che rappresentano in pieno la società raccontata da Mad Men: il sogno americano nelle sue molteplici declinazioni in un contesto in cui tutto è in continuo movimento e si evolve rapidamente. Roger si impossessa di questo concetto e se ne fa portavoce, passando di matrimonio in matrimonio, di tradimento in tradimento, di figlio in figlio, continuando a muoversi pur restando fermo.
L’astrattismo di Don Draper
Per l’ufficio di Don Draper gli scenografi scelgono sin da subito dipinti astratti: non è semplice decifrare la sua personalità, né il dipinto acrilico di Michal Shapiro. Dell’artista vediamo ben tre opere nell’episodio pilota della serie, ma di queste solo Butternut viene selezionata per decorare l’ufficio del protagonista. Un lavoro ben strutturato e sullo stile di Robert Delaunay che descrive un personaggio ambiguo e dalle mille sfumature, un uomo astratto e senza una forma ben delineata perché in continuo contrasto con il suo passato da Dick Whitman, figlio bastardo di un padre violento nelle campagne dell’Illinois. Ora veste i panni di Don Draper, un uomo dalla doppia identità e dalla doppia vita, che si alterna tra il lavoro e le amanti, la moglie e i figli. Nonostante tutto un uomo di successo, dotato di intuito e carisma, per questo rispettato e invidiato.
Non servono i dialoghi per farcelo capire, sarebbe chiaro anche se Mad Men fosse una serie muta, basterebbe solo guardarsi intorno: l’ufficio di Pete Campbell (Vincent Kartheiser), per esempio, è decorato con stampe e dipinti che sembrano imitazioni a buon mercato di quelli di Draper, come se gli scenografi volessero sottolineare non tanto il gusto artistico del personaggio, quanto più il tentativo di emulare il collega di cui tanto brama la stima. Campbell non è l’unico ovviamente, a distinguersi è solo Harry Crane con il suo dipinto figurativo e più vicino alle tendenze stilistiche europee (il Vecchio mondo), ribadendo così il suo essere un uomo tradizionale che conserva ancora qualche scrupolo nel tradire la moglie.
Alle spalle delle donne
Si potrebbe analizzare questa serie ufficio dopo ufficio, stagione dopo stagione, tanti sono gli spunti di riflessione che ci offre sulla società della Manhattan degli anni ’50 e ’60. Una città che offre milioni di possibilità anche alle donne, non solo ai “Mad Men” del titolo. «Questa città è tutto» dice per esempio Joan Holloway (Christina Hendricks), con gli occhi luminosi e la rappresentazione realistica ma moderna di un ponte alle sue spalle. Lo dice perché è a Manhattan che interpreta il ruolo di una femme fatale, una donna intelligente, capace e che ama la vita affascinante e sexy che conduce. Una donna molto diversa da Peggy Olson (Elisabeth Moss), che fa fatica a scrollarsi di dosso l’immagine della ragazza cattolica e pudica di Brooklyn, anche se per emergere sarà costretta a farlo. Con lei cambiano i dipinti alle sue spalle, sostituendo progressivamente i primi fiori di campagna in stile ancora figurativo con soggetti sempre più astratti, tipicamente mondani e al passo con i tempi. Così, Peggy e Joan diventano il simbolo della transizione da una società sessista aduna nuova era di emancipazione femminile, sempre più chiaramente espressa dai quadri alle loro spalle come se fossero le loro ombre.
Ombre o riflessi che si trovano ovunque in questa serie, dato che la maggior parte delle scene consiste in riprese di interni. Quadri e stampe sono praticamente in ogni sequenza e in ogni stanza, fedeli rappresentati del periodo storico in cui la serie è ambientata e dei personaggi che la abitano. Sono tele che vogliono insegnarci a dialogare con l’arte contemporanea abbandonando il preconcetto fin troppo antico e abusato del “potevo farlo anche io”, instaurando un dialogo con l’artista fatto non più di parole ma di immagini in movimento, di sensazioni ed emozioni. Perché a volte non servono libri, brochure o articoli come questo per capire.
Basta solo lasciarsi cadere.