Parlare di rivoluzione e concentrarsi esclusivamente sulla nascita di un nuovo assetto del mondo, di un nuovo ordine delle cose, riduce la complessità insita nella rivoluzione come processo. Perché rivoluzione è, prima di tutto, distruzione; e questo lo spieghiamo bene nella nostra recensione di Pistol, miniserie di Danny Boyle e Craig Pierce sulla nascita e sull’evoluzione dei Sex Pistols e sui cambiamenti che trascinarono con sé a metà anni Settanta.
Pistol
Genere: Drammatico
Durata: 50 minuti (ca)/8 episodi
Uscita: 7 settembre 2022 (Disney+)
Cast: Toby Wallace, Anson Boon, Maisie Williams
La trama e il viaggio nella cultura britannica degli anni settanta
A suggerire di cosa tratti Pistol è il titolo stesso. Oltre a raccontare la nascita del gruppo, attraverso fasi annebbiate e decisioni non sempre dirette, Boyle narra anche come i Sex Pistols guidarono un processo consapevole di disgregazione del rock’n’roll che aprì una via parallela a quella tradizionale. Pistol non tralascia nulla, anche grazie a un’attenzione particolare per la somiglianza del cast con gli originali membri del gruppo: dall’incontro fortunato di Steve Jones con Malcolm McLaren (Thomas Brodie-Sangster) e Vivienne Westwood (Talulah Riley), ai primi disastrosi concerti (interrotti, prima per caso e poi per scelta), all’incontro con Johnny Rotten (Anson Boon) e Sid Vicious (Louis Partridge), per finire al consolidamento della band come la conosciamo.
Quello dei Sex Pistols è stato un sisma: da una parte ha agitato la crosta della scena musicale mondiale dando origine a un pugno di gruppi punk, anche statunitensi (come nel caso dei Ramones e dei Clash, nati sotto diversi influssi musicali), giustificando l’esistenza di musicisti che non sapevano suonare e rivendicavano il diritto di fare musica senza saper suonare; dall’altra, ricordando proprio la brevità catastrofica di un sisma, o di un colpo di pistola, la nascita e lo sviluppo del punk si consumano in un arco di tempo di appena quattro anni, prima ancora che si potessero cementare le radici di un genere musicale duraturo e in grado di aggiornarsi man mano che il mondo andava avanti.
Contro il mondo
Non è facilissimo immaginare, oggi, a cosa somigliasse la scena musicale dell’epoca. Da una parte spicca un pop con una conformazione profondamente diversa rispetto a quella che definisce i parametri della pop music odierna (basti pensare che a scalare le classifiche erano ancora, in quasi egual modo, brani rock’n’roll e soul): al netto di sporadici casi, siamo ancora lontani dal consolidamento del pop come genere autonomo e dai contorni puliti. Ma signoreggia soprattutto il prog rock britannico, residuo musicale del fermento psichedelico degli anni sessanta e strutturato sulle influenze del jazz e della musica classica. Impegnati nell’assidua ricerca di complessità armonica, di varietà melodica e stilistica, fu proprio il rock progressivo ad attirare su di sé le attenzioni dei fautori del punk rock, che nella musica mainstream e universalmente considerata “di qualità” vedevano tradotto e riproposto, su pentagramma, quella cultura dominante che fingeva di non vedere cosa si celasse ai livelli subalterni della società.
Punk rock: genere musicale o fenomeno culturale?
In Pistol, Boyle e Pierce narrano a proprio modo questo momento musicale che somiglia più a un fenomeno culturale che a una vera rivoluzione in grado di scardinare l’esistente sonoro per rinnovarlo da capo. Innanzitutto lo fanno attraverso la prospettiva di un sex pistol, Steve “Cutie” Jones (Toby Wallace), che sembrava destinato a diventare il vocalist del gruppo, ma così non fu. Ne divenne, anzi, il chitarrista, in un continuo scambio di ruoli che fu cruciale per i Sex Pistols e che rispecchia l’anima tormentata dei suoi pezzi (o “musicisti”). La scrittura di Pierce, valorizzata da una regia che ammicca a Trainspotting – specialmente per l’iperbolica sovraesposizione di luci e tinte – esplora il background famigliare e psicologico del protagonista senza farne un trattato; anzi, muovendosi febbrilmente sulla linea cronologica degli eventi, alternandosi fra passato e presente, senza apparente linearità.
La musica come mezzo
A guadagnare un’ampia porzione di spazio è la narrazione della strategia che diede vita all’indisciplinata band, a opera di McLaren, concentrata sul suo valore prettamente estetico, politico e culturale. È dimostrativo di ciò che la figura di Westwood, attorno al cui negozio di King’s Road si radunano i ragazzi, sia prevalente rispetto all’effettivo valore artistico di questi, che si chiedono se cominciare un brano in Sol, in Re o in La. Non vogliono raccontare una storia attraverso le progressioni di accordi, né vogliono che la musica sia il fine ultimo. Non nascono davvero per fare musica, i Sex Pistols (per cui l’arte è niente più che un mezzo, come la moda), bensì per provocare un pubblico in cui sarebbero finiti, involontariamente, anche i perbenisti borghesi che volgono lo sguardo al loro passare, fingendo che siano uno scarto e non un loro prodotto; che siano estranei, e non i loro stessi figli, ormai annichiliti dagli effetti della distruzione di ogni ideale hippie di libertà.
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La recensione in breve
Con Pistol Danny Boyle confeziona una miniserie dalla narrazione libera e ribelle, fondamentale per chi voglia comprendere come la nascita del punk si leghi all'atto politico del rendersi visibili, più che a una consapevole idea di rivoluzione musicale.
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Voto ScreenWorld