Clic.
La luce dei flash illumina la figura divina ed eterea di Marilyn Monroe.
Clic. Scattano fotografie, cristallizzando la ragazza più desiderata d’America in un mito immortale. Voluttuosa, perfetta, sorridente, sexy. I fotografi chiamano il suo nome, gli uomini acclamano la sua bellezza e il suo corpo.
Ogni scatto fa lo stesso rumore di un colpo di pistola: clic.
Non possiamo fare a meno di iniziare la nostra recensione di Blonde con queste immagini, le stesse che aprono il film di Andrew Dominik, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2022 (dal 28 settembre su Netflix). Un film che farà discutere e che dividerà molto, totalmente anarchico nella messa in scena, sfuggente come il personaggio che racconta, duro come lo sguardo voyeuristico che gli offriamo. Una lunga e lenta marcia funebre che ci permetterà di entrare nella testa sofferente di Marilyn Monroe. E di Norma Jean. Una e duplice, il personaggio e la persona. La diva intoccabile e la donna fragile. La femme fatale e la vittima.
E, soprattutto, l’icona idealizzata e la carne da macello.
Blonde
Genere: Drammatico
Durata: 166 minuti
Uscita: 28 settembre 2022 (Netflix)
Cast: Ana de Armas, Adrien Brody, Bobby Cannavale, Julianne Nicholson
Una trama di bagliori
Blonde non è un biopic nel senso tradizionale del termine. Racconta sì la vita di Marilyn Monroe, dal suo rapporto con la madre, depressa e violenta, durante gli anni dell’infanzia sino alla morte avvenuta nel 1962 in circostanze ancora non del tutto chiarite. In mezzo i suoi due matrimoni, il primo con Joe DiMaggio, il secondo con Arthur Miller, la sua consacrazione come star del cinema, il suo declino a causa di psicofarmaci. Ma è soprattutto la storia di come si sente Norma Jean, il vero nome dell’attrice, di come viene osservata, di come viene plagiata, di come il nome d’arte Marilyn Monroe divori a poco a poco tutta la sua sanità mentale.
E non potrebbe essere altrimenti visto il materiale di partenza, il romanzo omonimo di Joyce Carol Oates che costruiva attraverso la finzione un ritratto discusso di Monroe. Sacrificando la cronaca degli eventi, ma concentrandosi unicamente sull’ “impero della mente” della protagonista, Blonde non vuole essere un racconto biografico convenzionale, ma rilettura di una condizione umana, che evolve e s’inabissa col passare del tempo. A partire da un inizio clamoroso, in cui Norma Jean festeggia il compleanno, per poi intraprendere una fuga in auto con la madre, sempre più nervosa e depressa per aver perso il marito, mentre le colline di Hollywood(land) bruciano. Bruciano come la rabbia di una madre che fa ricadere i suoi fallimenti sulla figlia, che passerà la vita a portare questo peso sempre più doloroso addosso, alla costante ricerca di amore.
Persa la figura materna, a Norma non rimane altro che cercare l’amore del padre, mai visto se non in una fotografia. Una ricerca che la trasformerà sempre più in un pezzo di carne, in una pietanza da consegnare e da cui abusare, un corpo da osservare e mitizzare. È la nascita di Marilyn, alter ego luminoso che nasconde un’enorme oscurità. Da lì in poi le vicende si susseguiranno.
Un flusso di coscienza
Sin dall’inizio il film si concentra sul mondo interiore di Norma Jean/Marilyn Monroe, relegando in secondo piano tutto ciò che non appartiene alla sfera emotiva della protagonista e fregandosene di spiegare per filo e per segno la sua vita. Anzi, molto spesso la sensazione è che si dia per scontato il contesto in cui si mostrano le scene, come se lo spettatore dovesse già sapere tutto sulla diva americana. Il che non è di per sé un difetto vero e proprio (non essendo questo il focus del film), ma potrebbe confondere la lettura delle singole scene e l’approccio con cui il pubblico s’interfaccia nella visione di questo incubo.
Non usiamo il termine “incubo” a sproposito, perché la dimensione sospesa e distorta del film avvince lo spettatore in un abisso onirico e doloroso, in cui la consequenzialità razionale spesso perde di significato. Ci ritroviamo dentro l’inconscio di Norma, vittima sacrificale di una società che scambia il talento con il “bel culo”, con le sue paranoie, le sue sofferenze, i suoi desideri.
Stile fuori misura
Il risultato è un film che trascina lo spettatore in un turbinio anarchico di stili. Il formato cambia, senza soluzione di continuità, tra il 4:3, l’Academy ratio degli anni Cinquanta e il panoramico; il bianco e nero e il colore si alternano, a volte seguendo una divisione tra il personaggio di Norma e quello di Marilyn, a volte basandosi solo su una bellezza estetica che colpisce per tutte le quasi tre ore di durata. Proprio lo stile di Dominik, regista che forte della disponibilità di Netflix, ha potuto realizzare un film d’autore senza compromessi, si rende fluido e imprevedibile: action cam, droni, camere a mano, riprese in verticale, dissolvenze che uniscono la realtà con la fantasia, stacchi di montaggio che legano la dimensione terrena con quella cosmica, c’è veramente di tutto e di più.
Uno stile barocco e a volte eccessivo, pure rischiando di andare oltre i confini dell’accettabile, che sicuramente provocherà i nervi dello spettatore e lo potrà persino infastidire, ma che risulta perfettamente funzionale alla dimensione interiore del personaggio costantemente sofferente.
Ana de Armas da Oscar
Diciamo le cose come stanno: Ana de Armas con Blonde ha trovato il ruolo della vita. L’attrice cubana offre anima e corpo al personaggio, senza ricercare una somiglianza eccessiva (che spesso e volentieri, in altre occasioni, si trasforma in un’imitazione caricaturale), ma lavorando attraverso l’espressività del volto e l’uso della voce. Ingabbiata nei panni di una donna costantemente martoriata nell’animo, de Armas riesce a non risultare mai stucchevole, persino nei momenti più ripetitivi e borderline del film.
Certo, lo spettatore deve assolutamente rendersi partecipe dello stato d’animo del personaggio costantemente, accettandone l’assenza di sfumature, ma non si può fare a meno di notare come questo ruolo abbia bisogno di un’attrice di grande talento per reggere non solo i panni di Marilyn Monroe, ma anche del mood stesso del film.
Il resto del cast, composto da attori del calibro di Bobby Cannavale, Adrien Brody e Julianne Nicholson, si mette al servizio della protagonista, non spiccando quanto lei nonostante le buone interpretazioni. Curioso che proprio i personaggi che adombrano Norma Jean nel racconto siano quelli messi in ombra dall’unico (con l’esclusione della madre) forte personaggio femminile del film.
La petite mort nello sguardo
È un film intriso di morte, Blonde, a partire dal titolo che toglie il carattere personale e identitario del personaggio per oggettificarlo. La Bionda, non Norma né Marilyn. Il contenitore dei sogni dell’americano medio, il prodotto costruito per il consumatore. Norma muore costantemente: muore nell’assenza di affetto e negli abusi che subisce, muore a ogni applauso che le rivolgono, muore ogni volta che un uomo non crede alla sua intelligenza. Muore a ogni sguardo, soprattutto maschile, nei suoi confronti. Che è anche il nostro.
Se il cinema è il luogo in cui il desiderio viene proiettato attraverso la luce, Blonde mercifica il mito di Marilyn facendoci desiderare la sua sofferenza. Irrorata di luce, dalla bellezza eterea, Norma accoglie il nostro sguardo perverso, che le dona forza e senso d’essere, ma d’altro canto indebolisce sempre di più la sua identità. Il corpo muore, la leggenda resta, come un fantasma che solo lo schermo può rappresentare, come nella migliore tradizione horror.
E proprio dell’horror Blonde ne raccoglie il lato più viscerale e perturbante, disturbando emotivamente lo spettatore, ma regalandogli uno degli esempi più coraggiosi e liberi di mettere in scena una storia che racchiude sangue, saliva, carne e sperma, l’orgasmo visivo come petite mort.
Una morte che si avvicina sempre più a ogni sbattito di palpebre, a ogni scatto fotografico, fino a spegnere quella luce radiosa come da un interruttore della luce.
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La recensione in breve
Blonde è un film che dividerà molto il pubblico, dallo stile anarchico e con parecchi momenti al limite della sopportazione. Eppure, complice un'interpretazione da Oscar da parte di Ana de Armas, riesce a rappresentare l'interiorità di Marilyn Monroe (tra realtà e finzione) con un gusto che non lascia indifferenti, risultando uno dei film più provocatori e teorici del concorso di Venezia 79.
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Voto ScreenWorld