Una bella boiata.
No, non è il nostro giudizio nei riguardi di The Kingdom Exodus, ma la prima battuta di un personaggio di questa terza stagione di Riget a commento del finale della seconda, del 1997. “Che razza di finale è questo?” dice spazientita Karen, togliendo il DVD della serie di Lars Von Trier, non sapendo che il finale, venticinque anni dopo, sta iniziando proprio in quel momento.
E in effetti The Kingdom – Il regno (che vi consigliamo di riscoprire assolutamente) non aveva un finale. Una terza stagione era nei piani, all’epoca, ma la morte di un protagonista e una certa mancanza di interesse da parte del regista danese aveva lasciato le vicende dell’ospedale chiamato Il Regno in sospeso. Un quarto di secolo dopo, seguendo le orme di David Lynch con il suo Twin Peaks (già modello delle prime due stagioni degli anni Novanta), Lars Von Trier chiude finalmente un cerchio e, come avremo modo di approfondire nella nostra recensione di The Kingdom Exodus, darà vita a una miniserie in cinque episodi – presentati tutti Fuori Concorso al Festival di Venezia 2022 – che non solo chiudono una narrazione interrotta, ma aggiungono un tassello coerente alla filmografia del regista danese.
The Kingdom Exodus
Genere: Grottesco, giallo, orrore, drammatico
Durata: 300 minuti
Uscita: n.d.
Cast: Bodil Jørgensen, Mikael Persbrandt, Tuva Novotny, Lars Mikkelsen, Alexander Skarsgård
Una trama che annuncia la fine
Karen (Bodil Jørgensen) è un’anziana signora che ha appena finito di vedere in DVD la serie The Kingdom di Lars Von Trier. La notte stessa, in preda al sonnambulismo di cui soffre, segue un richiamo quasi sovrannaturale e giunge alla porte d’ingresso del Rigshospitalet, l’ospedale di Copenhagen in cui è ambientata la serie. Una volta entrata, Karen scoprirà che realtà e finzione si confondono e lei stessa diventerà un personaggio attivo nelle vicende di una trama che sembra proseguire quella fittizia della serie di Von Trier.
Sembra essere giunto il momento dell’Esodo, ovvero il momento in cui gli spiriti, maligni e benigni, si libereranno definitivamente grazie all’apertura delle porte del Regno. Facendo subito amicizia con Bulder (Nicolas Bro), un portantino delle corsie dell’ospedale che assomiglia al personaggio di finzione ideato da Von Trier, Karen indagherà sul lato nascosto e spiritico del Rigshospitalet, che coinvolgerà anche vecchie conoscenze: l’ex dottore Krogshøj (Søren Pilmark), ora inebriato dai fumi dell’oppio; il vecchio studente Morten (Peter Mygind), ora medico; l’ex dottoressa, ora paziente senza gambe, Rigmor (Ghita Nørby) che si fa chiamare l’Elfo dell’Ascensore.
Nel frattempo, nell’ospedale seguiremo le vicende grottesche e tragicomiche di Helmer Jr. chiamato Helmez, figlio del primario svedese delle prime due stagioni, e dei nuovi dottori che “lavorano” (le virgolette sono d’obbligo) in corsia.
Umorismo danese e fine del mondo
Se c’è una cosa che subito salta all’occhio è che, nelle cinque ore di The Kingdom Exodus, si ride molto. Non mancano i momenti più orrorifici e misteriosi, ma l’intera serie è intrisa di un black humor che un personaggio nella serie definirà come “sciocco umorismo danese” in cui Von Trier sembra divertirsi, ritrovando una scrittura fresca che fa del grottesco e del teatro dell’assurdo il suo punto di forza. Se le prime due stagioni, pur non mancando di un certo senso dell’umorismo tipico dell’autore danese, puntavano di più sul mistero e sulla dimensione perturbante della storia, qui si fa molta fatica ad affrontare questo racconto apocalittico con eccessiva serietà.
Sembra quasi che lo stesso regista voglia stemperare continuamente i toni, forse per sottolineare come l’unico modo di affrontare una materia simile sia quello di non prendersi troppo sul serio e mettere alla berlina le figure tutte d’un pezzo che il racconto vorrebbe descrivere. Si assiste, con il passare degli episodi, a uno scontro tra linee narrative che la storia stessa vorrebbe sviluppare e l’intervento quasi conflittuale dell’autore, desideroso di dare vita a qualcosa di diverso e inaspettato, pur assolutamente coerente con gli episodi precedenti e la poetica di Von Trier. Ça va sans dire, il regista è assolutamente consapevole dei suoi mezzi e di quello che sta realizzando, e anche se potrebbe sembrare, The Kingdom Exodus non raggiunge mai il livello dell’autoparodia o della farsa imprevista.
Il ritorno nel Regno
Dove The Kingdom Exodus mostra i muscoli, però, è proprio in quelle sequenze più oniriche e raffinate che un autore come Von Trier ha sempre dimostrato di apprezzare (come non ricordare i prologhi di Antichrist e Melancholia?) e che formavano il suo stile nei primi anni di carriera. Proprio nell’uso della palette cromatica e di uno stile meno vibrante, con una camera a mano riconoscibile ma meno dinamica del previsto, ponendo attenzione all’elemento dell’acqua, The Kingdom Exodus sembra farci ritrovare il Von Trier degli esordi, quello de L’elemento del crimine ed Europa, ma anche quello ironico su sé stesso di Epidemic.
L’operazione che caratterizza questi cinque episodi è la stessa che caratterizzava la terza stagione di Twin Peaks. Anche in quel caso un regista tornava, a venticinque anni di distanza dalla fine della seconda stagione, a chiudere un cerchio lasciato aperto, con una nuova sensibilità e un nuovo modo di concepire la storia. Dispersiva, dedicata forse a un pubblico di fan del regista (e su questo aspetto ci torniamo tra poco) nonché della serie originale, poco attenta alle regole prestabilite della serialità, The Kingdom Exodus, come Twin Peaks: The Return è conclusione definitiva e tuttavia aperta di un universo affascinante, su cui vorremmo soffermarci ancora di più se non fosse che l’autore, vero e proprio demiurgo di quel mondo, preferisce impedircelo.
Anche visivamente, questa terza e conclusiva stagione di Riget mette in scena suggestioni e momenti che lasciano a bocca aperta (le più belle riguardano la presenza di Udo Kier, che ritorna nel ruolo di Fratellino anche se in una nuova forma), costituendo una continua tensione che ammalia e strega lo spettatore, lasciandogli respirare fumi oppiacei.
Un cast ricco di sorprese
Come sempre è accaduto nei film del regista danese, anche in questo The Kingdom Exodus si rimane sorpresi dalla capacità di un intero cast di dare vita a personaggi così naturali e umani. In questo caso, addirittura, la sorpresa è duplice: sia perché la scrittura lavora sulle idiosincrasie, i difetti e gli estremismi caratteriali dei personaggi, a loro volta inseriti in un contesto surreale che non rende per niente facile la sospensione dell’incredulità (eppure ci riescono!); sia perché il cast è ricco di personalità inaspettate che aggiungono volti noti rispetto agli attori nordici: al già citato Udo Kier non possiamo non citare la presenza di Willem Dafoe, nei perfetti panni di Satana, un ruolo che sembra vivere del volto e delle movenze dell’attore.
Funzionano, complice anche l’alto minutaggio, Lars Mikkelsen (semplicemente irresistibile) e Mikael Persbrandt, che eredita lo spirito di Ernst-Hugo Järegård, uno dei più riusciti della serie. E se il ritorno dei vecchi attori regala quel pizzico di nostalgia aggiuntivo che, a essere onesti, in una serie del genere non credevamo di provare, le new entry fanno rimpiangere la durata di sole cinque ore di questa nuova incarnazione de Il Regno. Un esempio su tutti? Tuva Novotny, che come una calamita attrae Helmez e lo spettatore a sua volta.
La fine di tutto, anche di un autore
Nostalgia e novità. In questi ultimi anni, quando si parla di revival, permane questa sensazione a cavallo tra il sentimento necrofilo e la celebrazione di qualcosa che appartiene al passato e che va rivissuto. Non fa eccezione The Kingdom Exodus, che, a voler dar voce ai detrattori, potrebbe benissimo essere considerata un’opera autoindulgente, l’ennesimo atto masturbatorio e persino poco rilevante di Lars Von Trier. Tutti giudizi detti e ridetti nel corso di ogni nuova opera a firma del regista.
Eppure, che cos’è il cinema d’autore se non proprio questo? The Kingdom Exodus appare di conseguenza l’ennesimo tassello di una filmografia che, oltre a lavorare per il pubblico, lavora soprattutto per il suo autore. Se il precedente film del regista, La casa di Jack, sembrava un compendio e un testamento del corpus (Christi?) del suo autore, Exodus ne è la naturale conseguenza. Opera che lascia presupporre un ultimo atto da parte del regista danese, che recentemente ha reso pubblico il suo stato di salute risultando affetto dal morbo di Parkinson, questi cinque episodi riflettono anche sulla morte, fisica e cinematografica, di un demiurgo che vede il tempo scorrere inesorabile.
Le corsie di un ospedale maledetto e simbolico sono il luogo perfetto dove poter esorcizzare le proprie paure e chiudere un cerchio, parlando di futuro ma volgendo uno sguardo al passato. Abbiamo già sottolineato come questa nuova miniserie sembra richiamare il Von Trier degli esordi, ma si rimane comunque colpiti dalle citazioni cinefile (anche dichiarate) che hanno a che fare con la spiritualità e il sopraggiungere della fine (Il settimo sigillo di Bergman, ma anche Dreyer, da Vampyr a Ordet). Ma se in Melancholia la fine della vita si cospargeva di tristezza e dolore, qui il mefistofelico Von Trier sembra volerci danzare sopra, spirito ancora una volta incapace di rimanere chiuso in un barattolo, cinico ma allo stesso tempo ironico, provocatorio e giocoso.
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La recensione in breve
Con The Kingdom Exodus, Lars Von Trier propone cinque nuovi episodi ambientati nel Regno danese, unendo vecchio e nuovo cast. Il risultato sono cinque ore grottesche ricche di umorismo e tensione, che esplodono in un finale apocalittico. Pienamente inserito nella poetica del regista, The Kingdom Exodus appagherà i fan di Von Trier, così come darà voce ai detrattori, dimostrandosi un nuovo tassello nella filmografia sempre più autoriale e personale.
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Voto ScreenWorld