Nope è il film meno politico di Jordan Peele. Questo non significa che non lo sia. Sono le angolazioni che cambiano, la maniera di rapportarsi al materiale e di maneggiarlo, il portarlo di fronte allo spettatore che nei ranch dei personaggi di Daniel Kaluuya, Keke Palmer e Steven Yeun trova un potenziale riflessivo pari a quello intrattenitivo per un terzo film dell’autore analitico eppure spensierato.
Spensierato nella misura in cui ci si può rilassare davanti all’arrivo degli alieni o nel ripercorrere i fattacci di un evento televisivo che ha visto in una scimmia la colpevole di un grondante spargimento di sangue. Ma pur sempre un’operazione, come suol dirsi, per il grande schermo, che si porta dietro proprio per questo un carico attrattivo dedito ai più coinvolgenti blockbuster.
Tra teorie e intrattenimento
Nell’attacco al razzismo col suo esordio Get Out – Scappa e nell’ampliamento di un concetto di sudditanza e soprusi nei confronti “dell’altro” come viene espresso in Noi, Jordan Peele decide di avventurarsi in un’opera che non dimezza il proprio portato riflessivo, ma lo incanala in una teoria dell’intrattenimento e dello spettacolo che rispecchia poi il risultato di Nope.
La teoria dello show business, l’osservazione di una società basata sull’apparenza e il successo, la ricerca costante di una “sequenza alla Oprah” che potrà scambiare uno status di mediocrità per uno di maggior agio diventano da potenziale a materia per l’autore che trasforma letteralmente l’acqua in vino. Le parole, gli studi, le opinioni e le considerazioni alla base testuale della sceneggiatura di Nope si tramutano di fatto nella costruzione giocatttolosa di un cinema americano che ricerca primariamente l’attenzione e il plauso del pubblico.
Dal cinema delle origini al blockbuster
Il rivolgersi alla gente, il guardare agli spettatori dinnanzi alla volontà stessa di voler creare un’altra opera dietro a cui scavare e scovare significati diventa a propria volta un atto politico che passa innanzitutto dal desiderio di divertire e distrarre l’occhio del pubblico. Il medesimo abbandonare i sottotesti delle pellicole precedenti di Peele fa di Nope un manifesto a sé dell’arte popolare, quella che ha da sempre caratterizzato il cinema delle origini e a cui il suo autore vuole palesemente tornare. Non a caso i fratelli protagonisti discendono da un avo che ha dato il via al cinematografo. E non lo è nemmeno il fatto che questo lontano parente sia stato impresso in eterno su un iniziale accenno di pellicola.
È The Horse in Motion (detto anche Sallie Gardner al galoppo) il procedimento composto da ventiquattro fotografie scattate in successione e riprodotte grazie allo zooprassiscopio, il quale contribuisce a dare un senso di movimento. È un accenno di cinema, un oggetto grezzo, quasi rudimentale. È la miccia che ha dato il via all’arte di cui Jordan Peele fa uso e di cui i suoi protagonisti sono gli eredi.
Appartenenti all’albero genealogico di quel fantino al galoppo in sella al cavallo nell’esperimento fotografico di Eadweard Muybridge, i fratelli di Kaluuya e Palmer continuano la loro attività sui set addestrando cavalli e portando avanti la tradizione di famiglia. E sarà utilizzando proprio l’analogico in combinazione però col digitale che riusciranno (forse) a raggiungere lo scatto perfetto. Quello di cui nel 1878 il loro antenato è stato protagonista rendendo consapevole il mondo delle potenzialità di un processo tecnologico che sarebbe mutato in cinema e che in Nope viene inquadrato per portare l’umanità ad una scoperta successiva, sempre determinante e sconvolgente: l’esistenza degli alieni.
Benvenuti, lo show sta per iniziare
Nella combinazione di due vere e proprie rivelazioni, il cinema e gli UFO, Jordan Peele tratteggia un racconto che ha la classicità dei western che hanno reso famosa e abbordabile un’arte nata per distrarre il pubblico, mentre ne ripercorre in modo sibillino la storia e la sfrutta grazie ai suoi stessi strumenti.
Alla capacità di conquistare, ammaliare, di catturare completamente e addomesticare uno spettatore che rimane inerte davanti alla sua grandezza. Accogliendolo come si trovasse davvero nello spazio espositivo di un ex star della TV che ha creato il proprio impero nel mezzo del deserto, tra giostre e riproduzioni di città del Far West, meta prima della rincorsa all’oro e dei racconti cinematografici.
Lo spettacolo onnisciente
Nell’aspra seppur silente critica alla voglia di mostrarsi e mostrare, all’inseguimento della fama e all’ossessione del vedere che nella contemporaneità assume la variante della meccanicità della ripresa e il dover girare con qualsiasi dispositivo possibile, Nope ha comunque l’intenzione principale di iniettare tali tesi nell’orecchio del pubblico mentre ne riempie vivacemente lo sguardo.
Lo stuzzica con corse e tranelli, inventa trappole con cui incastrare tanto gli alieni quanto l’interesse dello spettatore, gli promette uno show in cui viene invitato ad entrare nel vivo, nella mescolanza di un’analisi che non vuole trascurare il divertimento e, anzi, lo innalza a scopo da raggiungere. La società dello spettacolo è una continua esibizione a cui Jordan Peele ci invita a presenziare. Dietro, avanti, vicino alla macchina da presa. Nel mezzo del ciclone. Le porte spalancate di un numero di cui fare parte e, insieme, a cui assistere restando a bocca aperta.