Nel 1987 l’istrionico e visionario regista olandese Paul Verhoeven consegnava alle sale cinematografiche RoboCop, sci-fi distopico sagacemente mixato con il poliziesco, il noir e la satira sociale. Tra cupi scoppi di iperviolenza e scene da antonomasia rimaste negli annali del cinema, in occasione dell’anniversario dell’uscita riscopriamo questo classico degli anni Ottanta con protagonista Peter Weller.
La trama: Welcome to Detroit
In una sporca, disperata e decadente Detroit la polizia si scontra quotidianamente con bande di delinquenti, rapinatori e stupratori. I tassi di criminalità sono alle stelle e megacorporazioni come la OCP mirano a ristabilire l’ordine edificando l’avveniristica Delta City e mettendo in strada pattuglie robotizzate di ED-209. Ma l’unico prototipo, durante un malfunzionamento, uccide un membro del consiglio di amministrazione della OCP. Così, la corporazione decide di mettere in stand-by lo sviluppo dell’ED-209 per concentrarsi sul progetto RoboCop. Al suo primo giorno di lavoro dopo il trasferimento alla Metro West, l’onesto e ligio poliziotto Alex Murphy, in coppia con la partner Ann Lewis, si imbatte nella banda dello psicopatico Clarence Boddicker. Durante l’inseguimento, Ann viene neutralizzata mentre Alex uccide uno dei malviventi ma viene, a sua volta, circondato da Boddicker e dai suoi uomini, venendo così crivellato di colpi e mutilato. Dichiarato ufficialmente morto, la OCP si appropria di quel che resta del poliziotto. Sostituendo le parti mancanti con un esoscheletro in titanio e kevlar e implementando il suo cervello con un avanzato sistema informatico, Alex diventa il primo prototipo di RoboCop.
Una formula vincente tra sci-fi, noir e satira
Il cupo e pessimista futuro rappresentato da Paul Verhoeven attraverso i fotogrammi che compongono RoboCop è qualcosa di così accattivante e, al tempo stesso, disturbante che, nell’amalgama di generi e sottogeneri mescolati sapientemente, non poteva mancare un tocco di noir: a partire dalle rappresentazioni dei bassifondi di Detroit, dove si consumano crimini di ogni tipo ma, al tempo stesso, anche del percorso di “nuova vita” del protagonista Alex Murphy/RoboCop, quasi una sorta di figura cristologica e messianica che torna dall’aldilà sulla Terra a battere le malfamate strade della metropoli per ripulirla dalla feccia. Un percorso quasi vendicativo, per certi versi, ma che si mantiene in linea con quella che è l’applicazione della legge nonché l’adempimento della giustizia.
Noir che si alterna a sequenze da western metropolitano a base di sanguinolente sparatorie e singoli colpi da duello (come la scena dello sventato stupro grazie all’intervento dell’agente robotico). Vero è che RoboCop, di partenza, è un puro sci-fi (forte delle influenze di Blade Runner e Terminator) a base di distopie, robottoni armati fino ai denti e cyborg umanoidi ma, il punto par excellence dell’opera verhoeveniana sono gli intermezzi sotto forma di spot televisivi o notiziari, veri e propri esempi metatestuali che fungono da satira sociopolitica e antropologica decisamente in anticipo sui tempi.
Vivo o morto, tu verrai con me
Un’opera come RoboCop, d’altronde, figlia dei tardi anni Ottanta non poteva non riflettere quella che, a tutti gli effetti, è stata l’estetica di tanto cinema d’azione e fantascienza della decade stessa. Difatti, il lungometraggio di Paul Verhoeven si contraddistingue per una elevata iperviolenza a momenti realistica e, in altre occasioni, decisamente splatter e iperbolica da film horror. Contemporaneamente, proprio questa crudezza fa sì che RoboCop sia un’acuta riflessione sulla società sempre più in preda alla violenza e al crimine ma anche una continuità di scene diventate ricordi indelebili dell’immaginario collettivo: a partire dalla sadica uccisione di Alex Murphy, resa ancora più disperata dall’ottima interpretazione di Peter Weller, letteralmente fatto a pezzi da una pioggia di proiettili e rosate di fucile, così come le stesse uccisioni messe a segno dal poliziotto cyborg nel momento in cui distintivo e legge sembrano non sortire alcun effetto contro la delinquenza.
E in effetti, la famosa frase pronunciata da RoboCop/Murphy “Vivo o morto, tu verrai con me” rappresenta il sunto di questa dicotomia d’azione del redivivo poliziotto di Detroit. Ancora oggi, le scene di violenza al centro di RoboCop sono alquanto forti, merito soprattutto degli effetti speciali di quel genio di Rob Bottin (che ha curato anche quelli di La cosa di John Carpenter) coadiuvato dalle buie e nichiliste atmosfere ricreate sul set. RoboCop è diventato così, nel corso degli anni, una pietra miliare citata, plagiata, parodiata e chi più ne ha più ne metta.
Non solo entertainment
Tuttavia, RoboCop non si attesta, solo ed esclusivamente, nei lidi del puro entertainment blockbuster bensì, come già affermato, diventa mezzo e rappresentazione di una critica e diretta satira sulla società, sullo strapotere dei media e su quello di lobby e dintorni, soffermandosi in particolare su quest’ultimo aspetto. La OCP, difatti, rappresenta il non plus ultra delle azioni scriteriate votate al più alacre profitto economico, senza mai prendere in considerazione gli aspetti etici e morali a cui gli uomini dovrebbero rispondere e far fronte nel momento in cui si va ben oltre il limite consentito. Impossibile, quindi, non pensare a un confronto incrociato con le coeve compagnie di sicurezza e paramilitari private ancora oggi al centro di controversie legate, soprattutto, ai teatri di guerra. Parimenti, le tre direttive inviolabili facenti parte del sistema informatico su cui è programmato il cyborg poliziotto (adattamento delle tre leggi della robotica di Asimov), non permettono al protagonista di fare del male agli innocenti ma anche ai vertici corrotti della OCP: insomma è impossibile, qui, non riflettere sullo strapotere che la corruzione del sistema esercita anche dove non dovrebbe essercene.
Ed ecco che, a fomentare tutto ciò, ci pensa l’idea di Verhoeven di inserire gli intermezzi metatestuali all’interno di RoboCop, quasi uno sfondamento della quarta parete per un diretto dialogo con gli spettatori. Formula, questa, adottata nuovamente e successivamente nell’altro suo cult di fantascienza che va sotto il titolo di Starship Troopers. RoboCop, si presenta come un prodotto sì figlio dell’intrattenimento ma capace, parallelamente, di far riflettere e anche molto.
Un prototipo apripista diventato franchising
Oltre al successo economico (negli Stati Uniti ha incassato 53 milioni di dollari contro i soli 13 dei costi di produzione) e di critica, RoboCop ha il merito di essere stato il prototipo apripista di un fortunato franchising. Al film di Verhoeven, difatti, nel 1990 e nel 1993 sono seguiti, rispettivamente, i sequel RoboCop 2 e RoboCop 3, certo non proprio all’altezza dell’originale ma che, nonostante ciò e il cambio di regia, sono riusciti a difendersi bene e a ritagliarsi il proprio spazio cinematografico. Ancora, il film di Verhoeven ha permesso ulteriori speculazioni economiche con svariati fumetti, viodegames, serie TV live action e d’animazione e un remake, alquanto discutibile, uscito nel 2014, mentre si rincorrono le notizie di un nuovo film nonché dell’uscita del videogame next gen RoboCop: Rogue City. RoboCop ha avuto e ha ancora il merito, quindi, non solo di essere un cult ma una continua fonte di ispirazione per prodotti transmediali.