Esplosivo? Lo è stato. Sconvolgente? Ovvio. Divertente? Molto. Pure violento? Beh, non abbiamo bisogno di rispondere anche a questo, vero?
Diciamolo pure, il finale di The Boys 3 ha regalato in poco meno di un’ora tutto lo spettacolo che cerchiamo quando ci sintonizziamo su Prime Video, curiosi di sapere cosa succederà al gruppo di ragazzacci capitanati da Billy Butcher e quali altri limiti oltrepasserà Patriota.
L’ennesimo centro per una serie ormai sempre più differente dal materiale originale, quel fumetto scandaloso di Garth Ennis e Scott Derrickson, che non risparmia una satira fulminante al mondo contemporaneo.
L’apice della terza stagione è stato senza dubbio il sesto episodio, quello dedicato all’Eroegasmo, che si è dimostrato ben diverso da quanto era stato preventivato (e immaginato) dal pubblico. Reazione simile ma opposta per questo ottavo episodio che, nonostante sia un ottimo finale di stagione, è stato accolto con reazioni miste da parte degli spettatori. Il motivo è presto detto: con questa puntata conclusiva, la serie sembra essere tornata al proprio punto di partenza. Dopo essersi eretta petto in fuori in stile Superman, con forse sin troppa sicurezza per sette appuntamenti, alla fine dell’ottavo episodio The Boys sembra essere stata percepita come un attorucolo della Vought, più che un vero super.
Dovremmo saperlo ormai: per funzionare i racconti audiovisivi hanno bisogno di farci provare l’obbligatoria sospensione dell’incredulità. Dobbiamo accettare gli eventi e i colpi di scena, fidarci delle direzioni narrative che gli sceneggiatori hanno imbastito per noi, farci trasportare dell’emotività. In poche parole, per godere di una storia dobbiamo credere nella sua inspiegabile magia. Che la serie di Eric Kripke abbia svelato il suo trucco, perdendo di fascino tutto d’un tratto?
Cos’è successo nell’ultima puntata di The Boys 3
Come a ogni stagione di The Boys, l’ottavo episodio è quello che cerca di tirare le fila della macrotrama della stagione, mettendo in scena uno scontro fisico che coinvolgerà tutti i protagonisti. L’obiettivo da parte di Butcher è sempre uno: uccidere Patriota, il supereroe apparentemente invincibile e ormai totalmente divorato dal culto della propria personalità, tanto da fare bello e cattivo tempo all’interno della Vought. Per raggiungere il proprio obiettivo, Butcher ha risvegliato Soldatino, figura del passato simile a Patriota e creduto morto (per mano dei suoi ex compagni di squadra) da anni. Nella torre della Vought va in scena una resa dei conti che coinvolge due fazioni pronte a scambiarsi i membri.
Dopo una lotta che coinvolge Butcher, ancora una volta drogato di composto V temporaneo, Patriota, Soldatino, Starlight, Maeve e il giovane Ryan (nato da uno stupro di Patriota nei confronti della moglie di Butcher, Becca), ormai sempre più legato al padre leader dei Sette, la serie sembra fare un passo indietro rispetto a quanto raccontato. O meglio, sembra tornare al punto di partenza: Soldatino torna in un sonno senza risveglio com’era all’inizio della stagione; Maeve simula la propria morte per rimanere nell’ombra (una sorta di lieto fine per lei dopo tanta sofferenza, ma si tratta di un personaggio che lentamente si è posto sempre più ai margini della storia); Billy e i suoi Boys ricominciano punto e a capo con la voglia di “sculacciare i super” (con l’ingresso ufficiale di Annie/Starlight tra le loro fila, dopo una collaborazione ufficiosa); Patriota torna a essere il supereroe più amato (e temuto) d’America, stavolta con prole al seguito. Certo, in mezzo c’è stata qualche rivelazione (la parrucca che porta Jessica) e qualche uscita di scena (Black Noir), ma nulla che possa aver cambiato di così tanto lo status quo della serie.
Insomma, in qualche modo, sembra essere tornati, in maniera leggermente diversa, all’inizio di tutto.
Prendersi sul seriale
Satira cinica sull’industria audiovisiva, sul marketing e sull’immagine da vendere, The Boys rispetta le regole auree della serialità televisiva, contaminandole con la struttura tipica dei cicli dei fumetti. Il risultato è un gioco col pubblico che assomiglia alla maniera in cui Butcher manipola le persone intorno a sé. La ripetitività degli eventi, quel senso di ritorno al punto di partenza è parte integrante della struttura seriale, ovvero di un racconto che deve durare anni, fin quando il pubblico vorrà acclamarlo come un successo (o fino a quando gli sceneggiatori non si stancheranno di scrivere).
Ma è anche il meccanismo delle pubblicazioni a fumetti: nonostante i grandi eventi e i cambiamenti dello status quo narrativo, nonostante la sensazione costante di pericolo e di “fine della storia”, le serie dei supereroi continuano a essere stampate, pronte a mostrarsi sugli scaffali delle fumetterie con nuovi numeri 1. Storie che finiscono, ricominciando da capo.
In ambito televisivo è quasi diventata la norma considerare le miniserie come un format di autorialità ben diverso dalle normali serie ongoing. Il “film di 8 o 9 ore” sembra già denotare, nel modo in cui viene descritto, una maggiore qualità rispetto alla più canonica serie strutturata in più stagioni. Nel frattempo, le piattaforme streaming hanno cavalcato questa concezione, cambiando il modo in cui approcciarsi alle stagioni intere di un fenomeno. Stranger Things, per esempio, a ogni nuova stagione esplicita visivamente e graficamente la sua natura di sequel dall’originale, come fosse una nuova miniserie e non una stagione successiva (per una volta, parlare di Stranger Things 4 è più corretto rispetto a “la quarta stagione della serie”). Una situazione simile si trova anche in altre serie adolescenziali come Tredici o Skam Italia (a cui ogni stagione corrisponde un protagonista diverso). Questo crea delle aspettative da parte del pubblico che, disabituato a un racconto ripetitivo e reiterato, ricerca nel season finale una vera e propria conclusione dove niente sarà come prima.
The Boys, forte della sua dimensione fumettistica e della sua natura seriale vecchio stampo, rinuncia ancora una volta a tutto questo, sbattendolo in faccia allo spettatore e compiendo così il tema principale di questa terza stagione.
Ci piace così
In una stagione basata sullo snaturarsi per cambiare (il composto V temporaneo di cui Butcher e Hughie sembrano non poter più fare a meno), sulla superficialità del pubblico ormai divorato da narrazioni social che portano a dividere sempre di più, sull’eredità di padri dormienti lasciata a figli smarriti e sul bisogno di attenzioni, successi e riflettori addosso, la presa di posizione di The Boys appare ancora più chiara. È vero che a un livello superficiale tutto sembra essere rimasto uguale rispetto alle premesse (alcuni hanno addirittura parlato di stagione bella, ma inutile), ma proprio la serie stessa, criticando cinicamente il dietro le quinte delle storie che racconta, intende farci riflettere su come non dobbiamo fermarci a questo. Mostrando il lato oscuro dei protagonisti, che mai come in questa stagione si sono separati e si sono distanziati dagli altri e da loro stessi, The Boys regala un finale che salva i suoi personaggi, la serie e, soprattutto, gli spettatori.
Frammenti del telegiornale, storie di Instagram, lavaggi del cervello attraverso slogan e decisioni dettate dal mercato (la finta storia d’amore tra Starlight con Patriota è quanto di più esemplificativo delle nostre distrazioni quotidiane) e da quello che il pubblico desidera sono rappresentati in The Boys come il male assoluto, l’elemento che porta lo spettatore a riderne e a spaventarsi allo stesso tempo. Perché il mondo che mette in scena la serie è come il nostro, meno i superpoteri s’intende. E allora, se questi otto episodi hanno rischiato una perdita di equilibrio dettata dal cambiamento (con tanto di pericolo per i nostri Boys di prendere strade diverse), tanto vale dimostrare che è meglio rimanere uguali. D’altronde come vogliamo vedere i Boys in gruppo, troviamo più rassicurante lasciare Patriota al suo posto, invece di vederlo impazzire senza controllo. È una sicurezza che ci piace e ci conforta.
Oltre le apparenze
Non è forse meglio andare oltre le apparenze e cercare di guardare oltre la superficialità delle cose? Sembra essere questa la domanda che ci pone la serie di Prime Video, pronta a farci divertire quando vediamo Abisso che canta Imagine, prendendo in giro Gal Gadot e la sua iniziativa (e in quel caso ridiamo proprio perché ci accorgiamo di quanto sia futile e apparente l’aiuto da parte di queste celebrità nel cantare John Lennon su un social network), ma capace anche di accusarci della nostra pigrizia. Perché se giudicassimo tutto ciò che ci circonda come facciamo con le serie in tv, probabilmente gran parte del meccanismo di cui facciamo parte, che critichiamo ma di cui non possiamo farne a meno, si romperebbe.
Le storie sono tutte uguali e si torna sempre al punto di partenza, ma nel frattempo quante cose son successe: Hughie e Annie hanno chiarito il loro rapporto, Patriota è guarito dalle proprie insicurezze, la Vought si è rinnovata, Butcher ha rischiato di perdere ogni componente della sua famiglia, biologica e non. Tutti cambiamenti, nascosti, appartenenti al lato emotivo dei personaggi che rendono questo nuovo ennesimo punto di partenza qualcosa di diverso.
Non a caso, in The Boys si pone l’accento sulle interiora, sui liquidi corporei, sul sangue, su ciò che è nascosto e ci rende vivi. La morte non è mai rappresentata semplicemente con la distruzione del proprio involucro, ma attraverso l’esplosione di ciò che i personaggi contengono. Ennesimo invito a vedere al di là della narrazione superficiale, ennesimo disperato appello a non approcciarsi alle storie per cosa raccontano, ma per come lo raccontano. Ricominciando continuamente, The Boys sembra darci ulteriori possibilità di fare pace con noi stessi e migliorare la maniera in cui fruiamo i film e serie televisive. E noi, assuefatti come i fan dei Sette che nonostante tutto continuano ad acclamare questa perversa squadra di supereroi, continuiamo a non accorgerci del trucco.
Che è quello che fa il mago, distraendoci con i gesti e lasciandoci guardare la superficialità del momento, mentre la vera magia sta avvenendo nascosta al nostro sguardo.