I trentacinque secondi della splendida sigla d’apertura di Mad Men costituiscono già di per sé un’esemplare mise en abîme della serie stessa e della parabola del suo protagonista, Don Draper, direttore del reparto creativo di una rinomata agenzia pubblicitaria di New York. Una sagoma scura, modellata sulle sembianze di Draper, mette piede nel suo ufficio e posa sul pavimento la valigetta, ma di colpo l’intera stanza si dissolve intorno a lei. Per quasi mezzo minuto osserviamo quella figura umana precipitare nel vuoto, circondata dalle insegne gigantesche che, da un lato all’altro dei grattacieli di Manhattan, rimandano immagini di benessere e ritratti di famiglie felici.
L’uomo che cade: è una definizione che racchiude l’essenza del percorso di Donald Francis Draper nell’arco delle sette stagioni di Mad Men e di quell’intero decennio, gli anni Sessanta, che fa da cornice alla serie TV ideata da Matthew Weiner. Una cornice temporale, ma anche il nucleo narrativo di Mad Men; e Don Draper, in primissimo piano in un nugolo di personaggi indimenticabili, attraversa gli anni Sessanta come una lunga, inarrestabile caduta, ma in fondo senza mai abbandonare l’aspetto da impeccabile business man e senza allontanarsi dal lussuoso ufficio che rappresenta il suo massimo status symbol, la realizzazione dell’American Dream.
Il grande romanzo americano della TV
Il debutto di Mad Men avveniva esattamente quindici anni fa, il 19 luglio 2007, sull’emittente via cavo AMC: un network nato nel 1984 come contenitore di film del passato, ma che si sarebbe imposto di colpo nel panorama seriale statunitense di inizio millennio prima con il capolavoro di Matthew Weiner e appena sei mesi più tardi, nel gennaio 2008, con un’altra punta di diamante del calibro di Breaking Bad (nel 2010 sarà poi la volta del popolarissimo The Walking Dead). Mad Men, accolto fin da subito dall’entusiasmo di critici e appassionati, non somiglia ad alcuna altra serie televisiva di quel periodo; c’è chi prova a paragonarlo a I Soprano, ma laddove quest’ultimo titolo (a cui Weiner aveva lavorato come scrittore e produttore esecutivo) rielaborava il filone già consolidato dei Mafia movie, recuperando elementi de Il Padrino e Quei bravi ragazzi, Mad Men non si richiama ad alcun canone prestabilito.
O perlomeno, non nel campo della TV o del cinema; da diversi punti di vista, infatti, Mad Men ricorda piuttosto alcuni modelli della letteratura, dalle grandi saghe familiari a certe suggestioni del Philip Roth di Pastorale americana. È un’opera che non segue le regole tradizionali della serialità, non fa leva sui cliffhanger di fine puntata e non si preoccupa di far procedere la sua rete di plot secondo i ritmi consueti a cui era abituato il pubblico. Al contrario, sceglie di aderire quanto più possibile al tempo della quotidianità, a una routine spesso ripetitiva, a quell’incedere giornaliero che fa sì che la vita muti a poco a poco, in maniera pressoché impercettibile; e lo fa sia per Don Draper che per i suoi innumerevoli comprimari, disegnati in maniera superba da una meravigliosa squadra di attori (una su tutti, la Peggy Olson di Elisabeth Moss).
L’eroe borghese dell’America dei Sixties
Le prime quattro stagioni di Mad Men saranno premiate con quattro Emmy Award consecutivi come miglior serie drammatica, mentre l’ultima stagione, trasmessa in due parti fra il 2014 e il 2015, farà guadagnare finalmente il trofeo come miglior attore a Jon Hamm, ricompensato anche con due Golden Globe. Ed è appunto Jon Hamm, trentaseienne all’esordio della serie, il volto-simbolo di Mad Men, l’artefice – insieme a Weiner – di uno di quei personaggi assurti ormai a icone della storia della TV. In un affresco corale ricchissimo di dettagli, di sfumature, di parentesi quanto mai significative e preziose, pur nella loro brevità, il Don Draper di Hamm è la figura centrale, il perno su cui ruota l’intero microcosmo di pubblicitari dell’agenzia Sterling Cooper, ciascuno con il proprio corredo di parenti, coniugi, figli e amanti.
Elegantissimo, sofisticato, dotato di uno charme da divo hollywoodiano e di un talento formidabile nel convincere le persone a desiderare i prodotti a lui affidati, Don Draper è l’emblema del sogno americano, e in particolare della sua declinazione riferita agli anni del Boom economico, a cavallo fra l’età di Dwight Eisenhower e quella del neo-eletto John Kennedy. Un lavoro prestigioso e redditizio a Madison Avenue (da qui il nomignolo alla radice del titolo); una moglie, la Betty di January Jones, ricalcata sull’archetipo di Grace Kelly, che ogni sera lo attende a casa insieme ai loro tre figli; e perfino, per rispettare appieno l’immaginario alto-borghese, una schiera di amanti che si farà via via più folta. Eppure, Don Draper non è davvero felice: ce ne accorgiamo fin dall’episodio d’apertura, quando per la prima volta ci viene offerta la possibilità di scrutare nel vuoto che lo attanaglia con silenziosa ferocia.
Chi è veramente Don Draper?
Mad Men ci propone, fra le altre cose, l’esplorazione di quel vuoto. I flashback sull’antefatto della serie ci illustrano le origini della maschera di Don Draper a partire dalla sua identità originaria: quella di Dick Whitman, cresciuto in povertà nell’Illinois della Grande Depressione e in seguito, come una sorta di Mattia Pascal, fatto opportunamente sparire durante la Guerra di Corea per ‘rinascere’ con il nome di Don Draper. Draper è dunque un artificio, un prodotto fabbricato a uso e consumo della società del Boom secondo i codici della rispettabilità borghese; ma lui è troppo intelligente per non intuire la falsità della propria esistenza, per non essere contagiato da un’inquietudine contro cui non riesce a trovare rimedio, e che in più occasioni si affaccia a increspare quella vita ‘perfetta’ come in uno spot pubblicitario.
Dotato di indubbie qualità, ma contaminato pure dall’ipocrisia e dai pregiudizi tipici della sua generazione (e come potrebbe essere altrimenti, per un simile campione di conformismo?), Don Draper è l’eroe fragile e incompiuto che si affanna a voler controllare un mondo in un’irrefrenabile fase di cambiamento: la questione razziale, il Vietnam, la rivoluzione sessuale, la controcultura hippie, addirittura la conquista dello spazio. Peggy Olson, più giovane e dalle vedute ben più ampie, cavalca quel cambiamento perché, almeno in parte, si riconosce in esso e lo accetta; Don Draper, invece, è troppo egocentrico e solipsista per comprenderlo veramente, così come forse non comprende neppure se stesso. Intrecciando la dimensione collettiva e quella individuale, Mad Men è pertanto il racconto della crisi: la crisi di un paese che assiste al tramonto dell’American Dream e la crisi di un mad man alle prese con la sua quieta, dolente follia.